Dopo aver attraversato la quasi novecento pagine dell’ultimo libro di Steven Pinker, Il declino della violenza (Mondadori, pp. 898, e 45), si rimane con un dubbio radicale: perché scrivere un libro del genere? La risposta di Pinker è contenuta nel sottotitolo: perché stiamo vivendo probabilmente l’epoca più pacifica della storia (quello originale è un po meno ottimistico: Why Violence Has Declined. Il titolo in inglese per noi è poco significativo: The Better Angels of Our Nature, una citazione da un discorso di Abraham Lincoln del 1861. Per Pinker gli «angeli» buoni della nostra natura sono l’autocontrollo, l’empatia, la moralità e la ragione).
Per dimostrare la sua tesi piuttosto originale, Steven Pinker – noto al pubblico per i suoi lavori di divulgazione scientifica sulla scienza cognitiva – raccoglie una quantità sterminata di dati, cifre, tabelle e citazioni. Tuttavia, pagina dopo pagina, percentuale dopo percentuale, cresce la sensazione che nel libro ci sia qualcosa che non quadra. La prova principale di Pinker è che il numero di morti violente nelle società contemporanee – rispetto a tutte le altre epoche della storia umana – è in costante diminuzione: ci sono meno condanne a morte, meno persecuzioni, meno morti nelle guerre, meno violenza appunto. Pinker ha ragione? Quelli che credono abbia torto, e sono tantissimi, dovrebbero farsi carico di andare a controllare le sue cifre, e smentirlo punto per punto. Ma non è questo il modo migliore per leggere un simile libro.

In realtà a Pinker sta a cuore un’altra questione, che non ha tanto a che fare con la violenza e la pace, o lo ha solo in modo indiretto. L’esempio della violenza serve a Pinker per sostenere implicitamente una tesi molto più ambiziosa, e questa sì davvero controversa: il modo di vita americano (e cioè, il modo di vivere di Pinker e di quelli che la pensano come lui) è il miglior modo di vivere possibile. Ora, il libro di Pinker è un libro di filosofia della storia travestito da libro di psicologia (cognitiva). In questo senso Pinker riprende le tesi del celebre libro di Francis Fukuyama del 1992, La fine della storia, che celebrava il trionfo delle democrazie liberali contro il comunismo sovietico. Solo che a fronte della pretesa di essere neutrale e oggettivo, Il declino della violenza lascia una sensazione di disagio: perché la massa di dati con la quale si vuole sommergere il lettore allude a qualcosa di diverso da quanto espresso in modo esplicito: in questione non è il numero di morti violente nel mondo moderno, piuttosto la domanda se ci sia un modo di vivere migliore di quello dell’America contemporanea. La risposta di Pinker è netta: no.

La sua è pura ideologia, perché trasforma un dato di fatto (l’andamento del numero di morti violente nel corso della storia) in un valore, e addirittura in un valore che finge di un essere un fatto (si può applicare a questo libro la critica di Marx all’economia classica, laddove considera naturali e quindi immodificabili i «rapporti di produzione», che invece sono storici e pertanto modificabili).
Qual è la vita migliore per Pinker, e quindi anche la vita naturale? Quella in cui gli «angeli» della nostra natura, aiutati soprattutto dalla scolarizzazione e dallo Stato, sconfiggono i «demoni interiori» che ci rendono cattivi (detto proprio così): demoni fra i quali Pinker include l’impulso al dominio, quello della predazione, la vendetta, il sadismo, oltre alla stessa ideologia (il miglior indizio del fatto che un libro è ideologico è la sua pretesa di non essere ideologico). Per aspirare al rango di libro scientifico quello di Pinker dovrebbe, inoltre, fare a meno di un po’ dei tanti angeli e diavoli seminati tra le sue pagine). Il più efficace di questi angeli, scrive Pinker, sarebbe la ragione (la razionalità), perché «vi è più di un motivo per supporre che maggiori capacità di ragione, in particolare la capacità di mettere da parte l’esperienza immediata, staccarsi da un punto di vista angusto e formulare le proprie idee in termini astratti, universali, porti a responsabilità morali maggiori, e fra queste all’astensione dalla violenza».

Ora, è evidente che Pinker ha torto. La tradizione culturale che più di ogni altra ha sviluppato la capacità di staccarsi dall’esperienza immediata e di pensare in modo astratto, quella di Kant e Hegel (oltre ad essere quella che ha inventato la psicologia scientifica, cioè il campo di ricerca di Pinker), è anche quella che è sfociata in uno dei più terribili eventi della storia umana, la Shoah. Il trionfo della ragione non coincide affatto con il trionfo della pace, e tantomeno con la vita giusta. In effetti la ricostruzione ottimistica di Pinker non riesce in nessun modo a dare conto di come sia stato possibile Auschwitz. Da questo punto di vista è significativo che il cognitivista americano invece di prendere in seria considerazione la pulsione di morte di cui parla Freud in Al di là del principio di piacere, la qualifichi sbrigativamente come ipotesi «eccentrica», che non avrebbe niente a che fare con la psicologia scientifica.
Il problema della pulsione di morte, però, non è la sua assenza dai manuali di psicologia ma la sua presenza nella realtà. Certamente, essa è incompatibile con la visione ideologica di Pinker, e con tutto l’apparato del suo libro, che verrebbe a perdere molto del suo senso.

Ma è alla fine del suo libro che Pinker svela tutte le sue carte, ossia dopo aver stordito il lettore con centinaia e centinaia di pagine sul «processo di pacificazione», di «rivoluzione umanitaria» e di «lunga pace; ed è qui che comincia la parte più sorprendente del Declino della violenza. Proprio tra queste pagine finali, infatti, scopriamo che secondo la scienza di Pinker «le persone più intelligenti sono più liberal». Finalmente ci siamo: la politica camuffata da scienza. Ma di quale liberalismo stiamo parlando? Forse di quello di Chomsky (antico maestro di Pinker)? No, la scienza (sempre tirata sempre in ballo quando si vuole rendere oggettivo ciò che è soggettivo, e neutrale il proprio parzialissimo punto di vista) ci informa di come «l’intelligenza de(bba) essere correlata con il liberalismo classico, che valorizza l’autonomia e il benessere degli individui rispetto ai vincoli della tribù, dell’autorità e della tradizione». La scientificità di Pinker diventa sempre più sospetta: la scienza «mostra come l’intelligenza sia più strettamente connessa con il liberalismo classico che con il liberalism di sinistra» (ecco allora perché perde sempre: forse per una volta Pinker ha davvero ragione). Ci sarebbe addirittura una «freccia causale» che «va dall’intelligenza al liberalismo» (quindi Marx e Lenin erano stupidi). La società meno violenta sarebbe quella in cui abbonda la ragione, e dove c’è quindi più intelligenza, e dunque anche dove alberga il «liberalismo classico».

Ma non finisce qui: per Pinker gli uomini ideali, quelli in cui democrazia e ragione finalmente convivono, non possono che essere le «persone più intelligenti», ossia quelle che «tendono maggiormente a pensare da economisti», e perciò coloro che sono meno favorevoli «agli interventi del governo nell’economia». E così il capitalista (possibilmente finanziario, perché la finanza è la scienza delle astrazioni tanto amate da Pinker) diventa il vertice dello sviluppo umano.
È qui che Pinker voleva arrivare, fin dall’inizio: tutta questa (lunghissima) storia della violenza in realtà nasconde l’obiettivo di arrivare alla seguente affermazione: non c’è nessuna ragione per essere scontenti dello stato attuale del mondo, al contrario, soltanto uno stupido in preda ad «analfabetismo economico» può davvero pensare che questo non sia il migliore dei mondi possibili, e che «i poveri possono migliorare la loro sorte solo confiscando con la forza i beni dei ricchi punendoli per la loro avarizia».
Tra le cose che Pinker sembra desiderare di aiutarci a capire è perché i poveri siano poveri. Facile: perché sono stupidi. Forse però non basta, per tenerli buoni, spiegargli che è giusto, o meglio naturale, che siano poveri. Per crederci, più che stupidi dovrebbero esere fessi.