Tutto comincia dopo il lutto, o meglio dopo il lutto ufficiale: la tradizione ebraica dello shiva che dura una settimana e durante la quale si resta a casa e si ricevono amici e parenti.
Eyal e Vicki hanno infatti appena perso il figlio venticinquenne Ronnie, morto di cancro, in Una settimana e un giorno, esordio alla regia di Asaph Polonsky – nato negli Usa ma cresciuto in Israele, dove il film è ambientato.
Presentato l’anno scorso alla Semaine de la Critique di Cannes Una settimana e un giorno inizia dunque laddove finisce il tempo sospeso e rituale del lutto, e tratta proprio il «nuovo» inizio della vita dopo la perdita di un figlio, che però è la stessa vita di sempre: il lavoro, un appuntamento dal dentista, i vicini insopportabili.

Alla necessità di ricominciare a vivere Eyal e Vicki rispondono in modo opposto, lei rituffandosi negli impegni di tutti i giorni, lui dedicandosi interamente alla marijuana curativa trovata nella stanza d’ospedale di Ronnie insieme al figlio dei vicini, coetaneo di quello che lui ha appena perso: Zooler.Polonsky affronta così il tema tragico del suo film attraverso la commedia, con la levità dell’umorismo che scaturisce dalla «strana coppia» costituita da Eyal e Zooler e dal loro fermo intento di sballarsi. Nel movimento incerto tra dramma e commedia Una settimana e un giorno trova il suo punto di forza ma anche il suo limite principale, senza mai centrare con precisione le atmosfere di entrambi i generi.