La prima cosa che colpisce, arrivando in una mattinata piovosa alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, è la luce. Una volta entrati, il grigiore del cielo autunnale svapora in un bianco accecante. Ci si guarda intorno spaesati perché, in fondo, non lo si ricordava così rarefatto questo museo dalla posizione fortunata ma poco battuto dagli itinerari turistici del «mordi e fuggi». Grandi divani al centro, persone sedute che leggono e una serie di allegri oggetti colorati che interrompono la sequenza monotona delle pareti (è il bookshop, libero, senza mura a dividere lo spazio).
L’ingresso al museo è stato reinventato dal designer catalano Martì Guixè ed è il primo tocco della «rivoluzione» firmata dalla nuova direttrice Cristiana Collu. Corporatura esile, sostenuta da una volontà di ferro (dettata anche da una consuetudine al lavoro senza pause), dopo l’esperienza al Man di Nuoro e al Mart di Rovereto Collu è arrivata a Roma sull’onda della riforma del Mibact e dell’autonomia speciale consegnata alla Gnam. «Per non chiudere del tutto, il 21 giugno scorso abbiamo fatto una prima inaugurazione, pensando innanzitutto alla restituzione dell’edificio originario, così come era stato immaginato da Cesare Bazzani – spiega -. A me interessava il rapporto del museo con la città e l’ambiente esterno: l’architetto si era confrontato con Villa Borghese e con la luce, che attraversava tutte le sale. Quando sei dentro, devi vedere sempre fuori». Via pannelli, barriere, ostacoli: un’infilata di porte e finestre guiderà il visitatore all’interno, dove potrà girovagare a cavallo di più secoli, trovando tessiture inedite e raffronti che lanciano uno scacco matto alla Storia con la «s» maiuscola. Prima dell’immersione, chi entra alla Gnam, troverà un luogo di accoglienza, una «piazza». Si può sostare, prendere una pausa, senza pagare il biglietto. «È un invito a riappropriarsi degli spazi in una modalità intuitiva. Le persone sanno perfettamente come utilizzarli, non hanno bisogno di nessuna istruzione…».

Come direttrice lei è entrata in contatto con una collezione e un luogo di grande fascino. Un’impresa difficile provare a riorganizzarli?
Quando sono arrivata, un anno fa, non avevo progetti né strategie. Non avevo un’idea preconfezionata, solo un paio di mostre che mi sarebbe piaciuto realizzare. Poi però, vedendo l’architettura e gli spazi, ho avuto la sensazione che fosse necessario occuparsi del museo prima di qualsiasi programmazione espositiva. Ho immaginato di dover proporre una nuova veste della galleria a partire da due pilastri: l’edificio straordinario del Bazzani e la collezione strepitosa che ospita. Prima ancora del riallestimento completo, a giugno nel salone centrale abbiamo inaugurato una mostra che ha funzionato da preludio per quel che sarebbe venuto dopo: The Lasting, interrogare la durata, il tempo come persistenza. Una rassegna molto classica, che avviava la commistione tra la nostra collezione con opere di Calder, Fontana, Medardo Rosso, Colla e altri lavori di artisti che ragionavano sul medesimo tema, per esempio Sugimoto.

Quale senso ha scelto di dare alla parola «persistenza»?
La suggestione è quella che vede la persistenza di antico, ciò che rimane, convivere felicemente – e in modo inspiegabile – con tutto il resto. È qualcosa che a Roma viene percepito come normale. Il 10 ottobre scorso è stata restituita al pubblico tutta la galleria. Gli spazi sono stati «riportati a nuovo», con un’attitudine archeologica: togliere, scavare per recuperare ciò che è originario. Non ho fatto nulla, era tutto già lì, sepolto. Tale restituzione – per la quale ho lavorato insieme al personale del museo e con la collaborazione esterna di Saretto Cincinelli – l’ho immaginata come fosse una vera e propria mostra.

Nel nuovo allestimento si raccontano, in modo originale, cento anni di storia e non solo. Quali sono le linee guida di questa passeggiata senza confini nell’arte che lei ha voluto proporre?
Time is out of Joint (il titolo dato alla nuova disposizione della collezione, coadiuvata da quaranta prestiti temporanei, ndr) non è immutabile e terminerà nell’aprile 2018. Oggi un riallestimento di una collezione non può essere somministrato senza prevedere una scadenza. È curioso: quando non c’era nessuna scadenza le cose andavano bene, credo invece che sia necessario preoccuparsi del tempo di permanenza, appunto.
Il titolo è la traccia di un tema, parla di un tempo scardinato, «fuori di sesto» come dice l’Amleto con un’espressione intraducibile, fuori dai cardini. Un tempo che viene concepito come mondo, natura, è il nostro tempo. Va anche in direzione di informazioni che noi abbiamo e sono molto antiche. Da una parte, si riferisce alle sensibilità delle religioni, penso a Il Tao della fisica di Capra; dall’altra, la dimensione temporale viene messa in discussione dalla fisica quantistica, come strumento per comprendere il mondo. Abbiamo ridotto il tempo a quel che possiamo percepire come scansione, orologio, cronologia… ma in realtà non sappiamo nulla. Quanto dura un istante? È infinito quando si prova dolore, vorace quando si è felici. Si espande e contrae. Le opere sono straordinari mezzi di trasporto. E per trasporto intendo anche la passione, perché se non ci toccano da vicino, diventano soltanto oggetti di studio e il «dispositivo museo» perde di significato. Nei musei, poi, esiste un’altra dimensione dello spazio: ci siamo noi che ci muoviamo, c’è molto «cinema» e tanta biografia. Le opere sono fisse e noi attraversiamo i luoghi. Un museo ha diversi traguardi che sono anche gli stessi della nostra memoria. Le opere citano il passato e preconizzano il futuro. Dialogano su più livelli, non soltanto entro i confini della storia dell’arte.

Il disorientamento che si prova nello sperimentare un percorso totalmente libero alla Galleria nazionale può mette a rischio il ruolo didattico del museo stesso, dicono alcuni suoi detrattori. Come risponde alla critica?
Bisogna mettersi prima d’accordo. Di quale didattica stiamo discutendo? Un museo non è sussidiario alla storia dell’arte, come si pretende che sia. Il racconto che facciamo qui non può essere la spiegazione spaziale di un manuale di storia dell’arte, perché non è come girare le pagine. Le opere convivono e vengono messe in relazione. A chi pensa che si tratti solo di cosmesi, rispondo che la parola ha a che fare con il cosmo, con la ricerca di un’armonia. Non si può venire al museo per vedere cose brutte, a meno che non si vogliano dare pugni allo stomaco, ma non è questa la mia intenzione. Credo di aver realizzato un lavoro molto classico. La Galleria nazionale, d’altronde, pullula di classici. Forse Fontana non lo è? Alcune polemiche mi fanno pensare che proprio chi parla di storia dell’arte in realtà se ne dimentichi. Quest’ultima è costituita da strappi. E anche da tante ricuciture perché è il nostro sguardo a rimettere le cose a posto, a fare ordine.

Sostiene quindi che l’arte sia sempre contemporanea?
L’arte è contemporanea solo al proprio tempo, poi però c’è il nostro punto di osservazione. Perché si continuano a proporre nuove traduzioni di Guerra e pace? C’è sempre una rilettura, qualcosa da aggiungere e quell’insieme continua a brillare di senso. La nostra mentalità occidentale ci ha abituati a valutare esclusivamente il risultato, ci sfugge il processo. La data di scadenza del riallestimento è un messaggio molto chiaro: il museo non si ferma qui, questa è una riproposizione di un patrimonio importante come quello della Galleria nazionale che si mette in gioco. Il budget del museo – 5 milioni di euro – serve soprattutto per far funzionare l’intera macchina. La mia operazione va in direzione della spending review: niente mega-mostre. Quando ci sono le riforme bisogna essere fondanti, dare indicazioni. Così, le esposizioni si terranno solo nel salone centrale, con curatori esterni e saranno piccole e di qualità.