«Il suo studio è tutto qui», afferma Quddus Mirza, noto critico e artista pakistano, indicandosi la testa. Una lunga amicizia, nutrita da grande stima, lo lega a Rashid Rana (è nato nel 1968 a Lahore, Pakistan, dove vive e lavora), oggetto della nostra conversazione. Nonché del mio lieve rammarico nell’aver incontrato l’artista, anziché nel suo atelier, nel super climatizzato Mocca al Mall 94, caffé di gran moda presso gli intellettuali di Lahore.

Rashid Rana, sguardo intrigante, abiti e accessori firmatissimi, è pienamente consapevole del suo talento, come pure del fascino che emana la sua personalità, perfettamente inserita nei meccanismi dello star system dell’arte contemporanea. La grande retrospettiva Labyrinth of Reflections al Mohatta Palace Museum di Karachi, nel 2013, in patria lo ha incoronato come il più importante artista contemporaneo; all’estero tra le sue personali recenti si annoverano la mostra alla Cornerhouse di Manchester (2011) e al museo Guimet di Parigi (2010).

Entrambi sorseggiamo limonata allo zenzero, mentre il laptop si accende. L’artista apprezza che il giorno prima mi sia recata nel giardino del Liberty Market, entrando nel grande cubo bianco che è una proiezione della stanza n. 3 del veneziano Palazzo Benzon. Con uno scarto di una frazione di secondo, quindi quasi simultaneamente, il pubblico – a Lahore e Venezia – entra nella dimensione virtuale/reale dell’opera diventandone parte. Evento collaterale della 56/ma Biennale in Laguna, la mostra My East is your West (fino al 2 ottobre) è organizzata dalla Gujral Foundation in collaborazione con Fondazione Mazzotta e Lahore Biennale Foundation: Rashid Rana con l’indiana Shilpa Gupta (Mumbai 1976) sono stati coinvolti nella ridefinizione della «cartografia culturale» dei loro paesi, uniti per la prima volta all’interno della grande kermesse dell’arte nella realizzazione di opere site specific che si legano al tema proposto dal curatore Okwui Enwezor: «offrire una cassa di risonanza del mondo».

9)_My East is Your West, Installation Shot, work by Rashid  Rana 2015, photo Mark Blower
«Lavorando con una vasta gamma di mezzi – scrive il critico indiano Natasha Ginwala, che fa parte del team della mostra – tra cui disegno, video, installazione, stampe digitali, testi e performance, Untitled (2014-2015) di Shilpa Gupta e Traspositions (2013-15) di Rashid Rana si allontanano dal cumulo del peso della storia per raccontare aspetti contemporanei della mobilità umana, della posizione e dislocazione, nonché le unità soggettive della percezione».

«My East is your West» è una rassegna nata dal dialogo con Shilpa Gupta…

È stata una sorta di collaborazione non proprio convenzionale. Visitando l’edizione passata della Biennale di Venezia insieme alla filantropa indiana Feroze Gujral (fondatrice e direttrice della omonima Foundation, ndr) ci siamo chiesti come mai né l’India, né il Pakistan avessero un padiglione. Il Pakistan, in particolare, non l’ha mai avuto. Ma perché, poi, dover avere un padiglione nazionale? In quanto artista sfido i confini nazionali. È nata così l’idea di un padiglione con due artisti, Shilpa che è indiana e io pakistano, che lavorassero insieme non necessariamente producendo un’opera a quattro mani, ma partecipando a una mostra che fosse una specie di dichiarazione di intenti.

«Transpositions» (2013-15) è un progetto molto complesso con opere digitali, video, installazioni e performance…

L’intero progetto rappresenta un cambiamento drastico rispetto a quello che facevo nel passato. Quello che anche lei ha visto al Liberty è la stanza n. 3 di Venezia. A Palazzo Benzon ci sono cinque stanze collegate progressivamente l’una con l’altra. Ognuna coinvolge il pubblico in maniera diversa, ma allo stesso tempo c’è anche un racconto visuale, lineare, che è quello architettonico. La narrazione alterna dettagli a visioni d’insieme, ci sono riferimenti al passato (due grandi schermi interpretano il quadro di Caravaggio, Giuditta e Oloferne, mentre in War Within II il riferimento è al dipinto Il giuramento degli Orazi di David – ndr.), quindi concettualmente c’è la dimensione del tempo in relazione allo spazio.

Quanto è importante, nel suo lavoro, l’interazione, fisica e psicologica, del pubblico?

Come artista, per me è più importante cambiare la percezione, reinterpretare come «usare» il pubblico: cosa si vede, chi vede, cosa viene visto. Questa dev’essere la conseguenza del mio progetto. Lo spettatore entra nelle sale di Palazzo Benzon e vede l’immagine proiettata, senza pensare che si tratta di un’opera d’arte e che per qualcun altro, altrove, lui stesso è opera d’arte. È stata un’idea che mi ha portato a riflettere su cosa sia l’arte nel mondo post Duchamp. Inoltre, un progetto del genere ottiene molti risultati inaspettati. Le reazioni stesse del pubblico sono assai diverse, c’è stato qualcuno che ha cominciato a piangere. Oppure, alcuni ragazzi sordi sono tornati per giorni e giorni.

14)_My East is Your West, Installation Shot, work by  Rashid Rana 2015, photo Mark Blower
La fotografia sembra occupare un ruolo determinante. La sua è un’estetica della decostruzione in cui l’immagine è giocata sulla frammentazione e la ricomposizione, ma anche sulla volontà di sfidare la bidimensionalità…

Ho iniziato il mio percorso artistico con la pittura che, evolvendosi, mi ha portato, a un certo punto, a pensare di introdurre la fotografia. Nei miei progetti non ha importanza che le immagini siano trovate o scattate e stampate da me. Tutto rientra nella mia metodologia del processo pittorico. Non mi interessa avere l’etichetta di pittore o artista concettuale, piuttosto è fondamentale il coinvolgimento di chi guarda l’opera. Per questo ho iniziato a cercare delle strategie visive, arrivando con i «foto mosaici» alla tecnica del micro/macro in cui l’opera vera si definisce nel momento in cui si cominciano a riconoscere i particolari. I livelli di lettura sono vari. In questo modo ho trovato interessante la fotografia come soggetto stesso del lavoro.

Questi «foto-mosaici» sono stati anche un modo per mettere ordine nella sua visione del mondo?

Posso dire che, sicuramente, sono sempre stato attratto dal senso del ritmo, da un sistema in cui fosse presente la progressione e la griglia. Le immagini ripetute formano, a loro volta, uno schema. La griglia è un metodo semplice di organizzare singoli elementi in linee perpendicolari, ed è un modello familiare nella vita contemporanea, come pure nell’arte. Molti artisti l’hanno adottata formalmente e concettualmente, come Piet Mondrian, Agnes Martin, Dan Flavin, Andrea Gursky… Nel 2006 sono stato invitato a una collettiva, negli Stati Uniti, Grid < > Matrix, (a cura di Sabine Eckmann, Kemper Art Museum, St Louis – ndr.), dove erano presenti anche i loro lavori. L’idea? Mostrare che il sistema della griglia non è morto nel XX secolo, ma ha avuto una ulteriore declinazione nei nuovi media attraverso il pixel.

Le serie «Veil» (2004) e «Red carpet» (2007), rappresentano alcuni dei suoi lavori più conosciuti (e quotati), in cui viene coinvolto lo spettatore in riflessioni sociali e politiche. Nella prima le immagini di donne che indossano il burqa sono definite da migliaia di piccole foto pornografiche accostate l’una all’altra. Mentre in «Red Carpet», che s’ispira alla tradizionale produzione di tappeti in Pakistan, vengono ribaltate suggestioni orientaliste attraverso il soggetto cruento degli animali in un macello. Qual è la strategia che ha usato per combattere i preconcetti?

Sono interessato alla società e la politica è uno dei suoi aspetti, ma prendo le distanze dall’arte politica. La pittura è qualcosa di supremo, per me, e non lascio l’estetica per fare politica. Sapevo che sia Veil che Red Carpet sarebbero stati lavori potenzialmente provocatori, ma non era questa la mia unica intenzione. Per quanto riguarda gli stereotipi sono le due facce della stessa medaglia e si distruggono da sé. Come ha potuto constatare lei stessa, in Pakistan non tutte le donne portano il burqa o il velo, come non tutti gli uomini pensano che le donne occidentali che camminano per strada siano ’facili’. Ho pensato che non ci fosse bisogno di fare altro che mettere insieme questi due aspetti – velo e pornografia – usando i loro stessi codici in maniera sovversiva.

Lahore è la città che le ha dato i natali e con cui continua ad avere un rapporto molto forte…

Non sono nazionalista. Sono anche canadese. Mi piace vivere a Lahore semplicemente perché qui sto bene. Credo che la città sia molto più importante del paese. La nazione è definita superficialmente da linee che non esistono, cambia storicamente. Anche la città è soggetta a trasformazioni, ma in termini di grandezza o quantità. È qualcosa di organico, mentre il paese può mutare solo a causa delle guerre. Non ho mai pensato consapevolmente che Lahore entrasse nel mio lavoro, ma dopo l’esperienza di My East is Your West – guardando indietro – mi sono reso conto che è sempre stato così. Credo che esistano due tipi di realtà, essenzialmente due modelli di esperienza: una è data dal mondo che ci circonda ed è collegata al nostro corpo, e l’altra è remota, intendendo con questa parola un tipo di conoscenza che può arrivare a noi attraverso i libri, magari del XVI secolo, la storia orale, internet o anche la televisione. In questo senso il mio lavoro è una negoziazione tra il reale e il telecomando, dove il reale è a portata di mano e il telecomando è il sapere accumulato indirettamente.