Scriveva Renato Barilli che «Jannis Kounellis è un artista di grande coerenza e creatività», capace, nei suoi lavori, «di inserire di volta in volta nuovi elementi a far corpo coi precedenti, e disponendo il tutto, in ogni caso, con un grandioso senso dello spettacolo. Magari – riportando – in scena le stesse componenti ma mutate nella disposizione, ’resettate’, si potrebbe dire, così da dar luogo a installazioni continuamente variate».Come quella proposta nello spazio della Scatola Magica del Piccolo Teatro Strehler per l’Omaggio a Heiner Müller, che lui e il regista greco Theodoros Terzopoulos, hanno deciso di tributare ad uno degli autori più significativi del teatro del secondo Novecento, scomparso il 30 dicembre di vent’anni fa.

Ecco quindi ritornare gli armadi, quelli che, nel 2006, sospese sui soffitti di Palazzo Riso, a Palermo, qui reinventati per ospitare(28-30 dicembre), la performance di Terzopoulos ispirata a Hamletmaschine che vedrà coinvolti l’attrice Sophia Hill e la musica elettronica live di Panagiotis Velianitis. Performance che proseguirà poi, nel 2016, la sua tournée in Grecia e Germania.

Kounellis, come già dichiarò all’epoca della sua collaborazione con Müller per il progetto Mauser (parte di una trilogia i cui altri due capitoli erano Filottete e L’Orazio), non allestisce una scenografia ma «teatro attraverso un’immagine». Lui, che si è sempre definito un pittore, si muove infatti dalla convinzione, già espressa in precedenza da Alberto Burri, che si possa dipingere sostituendo la tela e i pennelli con la materia e agendo oggettivamente nello spazio («Dal momento che la pittura è un costruire immagini, non può avere una tecnica o uno stile di riferimento. Ogni pittore ha le proprie visioni ed i propri metodi per costruire l’immagine»). Una vera e propria drammaturgia da intendersi nei termini di scrittura scenica, capace di trasformare lo spazio in una «cavità teatrale e umanistica» come afferma l’artista.

Un’installazione con la schiena rivolta verso le «rovine dell’Europa», proprio come si trova, in apertura di Hamletmaschine, quel personaggio, un tempo conosciuto col nome di Amleto, deciso a non recitare più la propria parte, perché convinto che il suo dramma, ormai, non abbia più luogo. Il testo di Müller è ciò che accade al «povero infelice» principe di Danimarca dopo aver bruciato il monologo shakespeariano.

Di fatto Hamletmaschine nacque in margine ad una traduzione della tragedia di Shakespeare a cui il drammaturgo tedesco lavorò per uno spettacolo di Besson-Langhoff e che lui stesso definì una volta «ein Schrumpfkopf», una di quelle teste-trofeo che i popoli primitivi ricavano dal teschio del nemico. Una partitura di frammenti che diventa un enigmatico viaggio tra fantasmi personali e collettivi.

Müller fagocita dramma e personaggi e allo stesso tempo, per mezzo d’uno spericolato salto temporale, si confronta con le apocalissi del XX secolo: la rivoluzione comunista, la sua pietrificazione in monumento e il suo soffocamento nella nauseante giostra consumistica. Kounellis concepisce una scena che è immagine di un mondo drammaticamente sconquassato, e lo fa, come sempre, con oggetti poveri e di uso quotidiano. Gli armadi, presenza incombente illuminata da un’ombrosità caravaggesca, su cui si impilano file di scarpe nere, inseriti nella loro immediatezza oggettuale, diventano l’espressione materiale di una lunga serie di relitti.

Lì, di fronte a quelle ante aperte e chiuse, si esce dal territorio della visualizzazione virtuale e ci si mette in una situazione di costante prossimità con le vicissitudini umane, con le impronte dell’agire quotidiano di cui quella mobilia è testimonianza. Ogni singolo frammento esprime autonomamente l’immagine tragica e veritiera di una memoria collettiva. Brandelli di una terra desolata già raccontataci da Elliot e Pound. Con l’irrompere della massa pura, delle insorgenze inaspettate, Kounellis rivendica la concentrazione del tempo e della storia, il passato attualizzato nel presente: quell’atteggiamento morale di aderenza concreta alla realtà.