Nel teatro del quotidiano, il matrimonio assume la valenza simbolica di atto d’intima connessione fra «anime gemelle». Ma non è esattamente così per Lucie/Camille, interprete di se stessa nella rappresentazione visuale che mette in scena con l’altro (nella realtà è il suo compagno) negli ambienti domestici, appena un po’ claustrofobici.
Con la curatela di Christian Gattinoni che ha selezionato alcuni lavori della serie With all this darkness round me I feel less alone (2016), Lucie Khahoutian (Erevan, Armenia 1990) è stata invitata a partecipare alla 27ma edizione del Si Fest – Savignano Fotografia 2018 (fino al 30 settembre).
Per questa giovane artista è anche un modo per avvicinarsi alla sua cultura d’origine, affidando alla fotografia, al video e all’installazione i frammenti di una narrazione tradizionalmente orale, come quella armena da cui proviene, che vengono impreziositi dalle citazioni del surrealismo, esoterismo e studi sull’occulto. «Assistiamo alla perdita dell’individualità e alla caduta nella follia, che emerge per portare all’isolamento – scrive Gattinoni, curatore della mostra e direttore artistico di questa edizione del festival insieme a Roberto Alfano e Laura De Marco, nel testo in catalogo -. Le figure umane si sfaldano, diventano irriconoscibili sotto coperture che li trasformano in fantasmi e la volontà di ritrovarsi in se stessi e nell’altro perde senso. Come possiamo essere soli insieme?». È lo stesso curator, qualche pagina dopo, a svelare la vera identità dell’artista parlando del collettivo Live Wild, creato nel 2014 da Camille Lévêque (Parigi 1985), assistente editoriale per Magnum Photos e co-fondatrice con la sorella Anna Lounguine della casa editrice Orpheus Standing Alone.

In questo lavoro è molto forte la presenza del pattern decorativo, che sembra segnare il confine tra visibile e non visibile, definendo la struttura del racconto…
L’intera serie è stata realizzata all’interno di un appartamento a Tblisi in Georgia. Uno spazio chiuso come un teatro, perché l’ispirazione di tutto il lavoro è l’opera teatrale Fin de partie di Samuel Beckett. In questo spazio confinato la decorazione è molto importante – il tappeto, la tappezzeria, i tessuti – in un certo senso è barocca e richiama i decori del Caucaso.

Viene messa a fuoco soprattutto la gestualità delle mani che s’intrecciano, benedicono, afferrano oggetti, come avviene per il libro aperto…
L’importanza che conferisco alle mani deriva dal fatto che sono molto interessata al linguaggio del corpo. Soprattutto quando si parla d’identità il volto è determinante. Ma nel mio lavoro il viso è coperto, magari nascosto da una mano e gli occhi sono chiusi da un drappo. La storia viene narrata attraverso l’astrazione dei gesti che implicano una simbologia che è anche religiosa. Essendo scritto in armeno, il libro è oscuro per la maggior parte della popolazione del mondo. Non è tanto importante per il suo contenuto – l’ho acquistato ed è nella mia casa, ma non l’ho mai letto – bensì perché richiama l’opera di Beckett e è rilevante proprio perché è scritto in armeno, una cultura tradizionalmente orale. Tutta la mia produzione riguguarda il mescolamento continuo di finzione e realtà.

Nell’azione performativa che valenza ha l’autorappresentazione?
È un lavoro sulla follia e sulla solitudine. La performance che appare nelle foto è realizzata in coppia: io e il mio compagno. Una coppia qualsiasi che ho messo in relazione con la società. Mi sono chiesta quale potesse essere il mio ruolo nella coppia stessa, nella società e nella religione, nel rapporto con Dio. Era fondamentale la mia presenza, perché tutto è partito da una mia domanda personale: nella relazione con l’altro esiste il rischio di perdere pezzi della propria individualità? Il fatto che nel lavoro sia presente la coppia di cui faccio parte, dipende anche dal fatto che io e il mio compagno viviamo un rapporto continuo, trascorrendo molto tempo in casa e stando noi due da soli, isolandoci dal resto del mondo. Una rappresentazione drammatica e teatrale che può essere pure una caricatura dell’adorazione, dell’amore, della fede. Un gesto fisico di disumanizzazione della persona che diventa quasi un mostro, ma anche una sorta di divinità con il volto coperto dalla mano o la presenza di tante braccia. Nelle fotografie c’è un forte richiamo alla religione, sia della chiesa ortodossa che di altre religioni, ad esempio nei gesti delle mani come l’offerta o la benedizione, nella postura della levitazione o nella raffigurazione di divinità dalle molte braccia come Shiva.

Lei fa parte del collettivo Live Wild, fondato nel 2014 da Camille Lévêque, insieme a Charlotte Fos, Anna Hahoutoff, Marguerite Horay, Lila Khosrovian e Ina Lounguine, che al Si Fest ha esposto «The price of a black life in America e Chaos Disco». Qual è la relazione tra Lucie Khahoutian e Camille Lévêque?
Si tratta della stessa persona e anche il collettivo è fittizio. Lavorando da molti anni sull’identità ho pensato di raccontare la mia che è franco-armena – in quanto terza generazione di rifugiati politici – attraverso diverse figure femminili. La mia famiglia, poi, è veramente multiculturale perché al suo interno, si parlava anche il russo. Si è trattato di mettere insieme diverse identità che ho voluto rappresentare, sia a livello di individuo che di collettività, mostrando l’Armenia a modo mio con una ricerca personale sulla memoria e sulla verità, insieme ai temi dell’emigrazione, della nazionalità, dell’identità culturale.
È presente il riferimento al genocidio armeno, perché la mia famiglia è scampata a quel genocidio, fuggendo in Francia nel 1915. Non sono solo francese o armena o donna o fotografa: il collettivo mi permette di essere tutte queste figure insieme – i nomi e le date di nascita appartengono a personaggi reali della mia famiglia – ed è il mio modo per esplorare anche le possibilità dei diversi linguaggi, fotografia, video, installazione.

Ha accennato alla tipica tradizione orale della cultura armena. Nella sua famiglia c’era la consuetudine di narrare storie?
Sì, ci sono racconti, versioni romanzata tramandate di generazione in generazione, in cui le date non coincidono con quelle storiche, magari cambiano un po’. In tutte le famiglie armene scampate al genocidio si narrano le stesse tre storie che vengono arricchite con l’aggiunta di alcuni particolari, ma del resto non si conosce nulla. Nelle mie fotografie è presente la stessa deformazione della verità.