Il Teatro Nazionale Habima di Tel Aviv ai primi di novembre si esibirà sul palcoscenico del JCC nell’insediamento coloniale di Kiryat Arba, alle porte di Hebron, e nell’Auditorium di Ariel, la seconda colonia per grandezza, ad una quindicina di chilometri da Nablus. Nelle due colonie sarà rappresentato “Una storia semplice“, un adattamento dal romanzo di S. Y. Agnon del 1935, che racconta i tormenti amorosi, e non solo, di un giovane ebreo in un piccolo centro dell’Europa orientale.

Da tempio della recitazione, con un dichiarato orientamento progressista, aperto anche alla cultura palestinese, Habima si trasforma da un giorno all’altro in un simbolo del progetto governativo di normalizzazione delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. A nulla sono servite le proteste di alcuni intellettuali, fra cui il noto regista Yehoshua Sobol, molto legato ad Habima, che sottolineano come Kiryat Arba e Ariel non siano in Israele ma nelle terre di un altro popolo costretto da decenni a subire l’occupazione militare israeliana.

Haim Weiss, docente alla Ben Gurion University di Beersheva, ha affidato alla sua pagina Facebook il compito di urlare il suo disappunto. «Questa è la prima volta che Habima si esibirà a Kiryat Arba. È inquietante la volontà del teatro, dei suoi lavoratori ed attori di prendere parte alla normalizzazione dell’occupazione trasformando Kiryat Arba in una città normale dove esibirsi senza problemi… È sconfortante che il teatro Habima vada in uno dei bastioni più razzisti e violenti dell’occupazione». Weiss poi si domanda: «Sono davvero le difficoltà finanziarie del teatro che hanno portato alla decisione di andare anche a Kiryat Arba?». Interrogativo legittimo visto che un portavoce del teatro ha reagito con rabbia contro «gli appelli volti a tenere in disparte gli israeliani e i loro insediamenti» e ha condannato il «boicottaggio culturale di località dove risiedono cittadini di Israele». Nessun cenno all’occupazione, tutto normale, anzi normalizzato.

Esulta la ministra della cultura Miri Regev, un ex generale che per anni ha svolto il ruolo di portavoce delle Forze armate, considerata una delle stelle del Likud, il partito del premier Netanyahu. Regev da tempo si batte per una cultura in linea con la politica tracciata dal governo. È lei la trionfatrice di questa vicenda. La scorsa primavera Regev aveva messo in chiaro che le istituzioni teatrali che si esibiranno nelle “comunità ebraiche” in Cisgiordania riceveranno un aumento del 10% degli aiuti statali. Aveva poi spiegato con la determinazione che la contraddistingue, che quelle che si rifiuterano di includere queste “comunità” nel loro programma subiranno un taglio del 33% del finanziamento pubblico.

La ministra sin dalla sua nomina è stata chiara: vuole una produzione culturale più nazionalista e, di conseguenza, pronta a limitare lo spazio ai lavori degli autori arabi, anche quelli con cittadinanza israeliana, che a suo dire finiscono per «sostenere il terrorismo» e «delegittimare» Israele. Parole che un anno fa causarono forte sdegno tra gli artisti più schierati a sinistra.

A decine si riunirono a Giaffa per dire no al «maccartismo». L’attore Oded Kottler scatenò un putiferio paragonando a un gregge di bestie gli elettori del Likud. Michael Gurevitch, direttore artistico del teatro Khan di Gerusalemme – dove un paio d’anni fa fu rappresentato in ebraico “Il mio nome è Rachel Corrie”, diretto da Ari Remez, con l’attrice israeliana Sivane Kretchner nei panni dell’attivista americana travolta e uccisa nel 2003 da un bulldozer militare israeliano a Rafah – propose uno sciopero di tutte le istituzioni culturali. «Non ci può essere alcun dialogo con Regev finché cercherà di influenzare le opere d’arte. Perché non può determinare lei ciò che danneggia o meno sicurezza e immagine dello Stato», disse Gurevitch invitando tutti gli artisti a sottoscrivere la petizione online contro le «misure antidemocratiche adottate da esponenti del governo per uomini di cultura le cui opere e opinioni non sono conformi con quelle ministeriali».

Agitazioni annunciate ma realizzate solo in minima parte mentre la ministra della cultura ripeteva di non voler finanziare «le produzioni culturali che delegittimano Israele». Minacciò in particolare di negare fondi a un teatro, gestito da un regista palestinese, Bashar Murkus , perché si rifiutava di portare le sue produzioni anche nelle colonie ebraiche. Negli stessi giorni il suo collega Naftali Bennett annunciava il taglio dei finanziamenti assegnati a una rappresentazione per le scuole del teatro al Midan di Haifa, ispirata alla vicenda di un detenuto arabo, Walid Daka, che nel 1984 aveva ucciso un soldato israeliano. P

rovvedimenti condannati dalla sinistra e invece accolti a braccia aperte dalla destra. Ben-Dror Yemini columnist del quotidiano Yediot Ahronot, che nei giorni scorsi aveva duramente attaccato il movimento Bds che chiede il boicottaggio di Israele, da un lato ha riconosciuto che la libertà di espressione e di provocazione sono «il cuore e l’anima della democrazia» ma dall’altro ha appoggiato pienamente i tagli minacciati dal ministro Regev. «Certi artisti vogliono proclamare che Israele è criminale, lasciateli fare. Vogliono fare del teatro ispirato a un assassino, fateli fare…ma non si capisce perchè i cittadini israeliani dovrebbero finanziare la denigrazione dello Stato», commentò Yemini. Non lontano da quel punto si spinse anche Craig Dershowitz, direttore esecutivo dell’organizzazione Artists4Israel. «Occorre tenere presente che ci sono individui che alimentano questo dibattito all’unico scopo di attaccare Israele». Un clima che ha garantito il successo della campagna di Regev per lo sdoganamento delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati e per una produzione artistica “nazionalista”.

La conversione politica del teatro Habima lo rappresenta alla perfezione.