Il primo incontro dopo lo shock sardo dura meno di un’ora. Un vertice lampo a palazzo Chigi, presenti Conte, Salvini, Di Maio e Tria: giusto il tempo di mettere a punto gli ultimi particolari del decreto sui truffati dalle banche, ripetersi che bisogna accelerare con i fatti concreti, a partire dai 3 miliardi stanziati per il dissesto idrogeologico, e per prendere atto dell’imminente rinuncia di Francesco Verbaro alla vicepresidenza dell’Inps con Pasquale Tridico. Nessun problema politico, solo un’incompatibilità tecnica che riapre le porte a Mauro Nori. Ma se anche non fosse lui ad affiancare Tridico, su quell’orizzonte il cielo della maggioranza è sereno.

Il summit non scioglie invece il nodo ben più aggrovigliato del direttorio di Bankitalia, a partire dalla decadenza di Luigi Signorini, la cui posizione resta nel limbo essendo decaduto automaticamente però senza una parola chiara da parte del governo. Ma dietro l’angolo ci sono anche i mandati del direttore e della vicedirettrice generale, Salvatore Rossi e Valeria Sannucci. Scadranno a maggio e per quel momento una decisione il governo, paralizzato dalle divisioni interne, dovrà prenderla. Per ora però rimanda. «Sia noi che la Lega abbiamo espresso esigenze di rinnovamento», allontana la palla Di Maio.

E’ vero, ma Salvini ha specificato che il rinnovamento non passa necessariamente per la sostituzione del direttorio e Giorgetti era contrarissimo a lasciar decadere Signorini. Partita aperta, da giocarsi nell’arco di mesi. Nessun accordo neppure su Fincantieri: se il semaforo verde per la riconferma di Giuseppe Bono è unanime il disaccordo è invece pieno sulle deleghe da lasciare nelle mani del presidente, che i 5S vorrebbero limitare di parecchio. Rinvio, tanto per cambiare.

C’è però un convitato di pietra, intorno al tavolo di palazzo Chigi, che viene appena nominato proprio perché la questione è tanto urgente da imporre la convocazione di un più ampio «tavolo dei leader» entro la settimana: il Tav. Ieri il governatore del Piemonte Chiamparino ha fatto la sua mossa ponendo all’attenzione del consiglio regionale l’eventualità di un referendum. Semaforo verde, con mozione approvata dal consiglio, anche se l’eventuale data resta indefinita. L’ipotesi più gradita per il governatore sarebbe accorpare il referendum alle elezioni europee e regionali. Per il fronte pro-Tav, in particolare per il Pd, sarebbe un ottimo traino.

In realtà il referendum regionale serve solo ad esercitare pressione e a mettere la Lega con le spalle al muro. I 5S hanno ragione nel sottolineare che dal punto di vista delle decisioni concrete convocare le urne «è inutile». Ma la mossa di Chiamparino completa un accerchiamento di fronte al quale la Lega ha margini di manovra ormai molto ridotti. L’industria è schierata in blocco, e ieri il presidente di Confindustria lo ha ripetuto a Di Maio, in un incontro «interlocutorio» nel quale i due si sono trovati concordi finché si è trattato di parlare della necessità di accelerare con gli investimenti, molto di meno quando Boccia ha messo sul tavolo il nodo Tav.

Ma la pressione più forte è quella a cui ha dato voce Tria, uscendo allo scoperto con la sua perentoria affermazione sull’obbligo di procedere con i lavori sulla tratta Torino-Lione, altrimenti nessuno investirà più un euro sull’Italia. Ieri anche Di Maio, dopo la replica a stretto giro di Toninelli, ha risposto al ministro dell’Economia: «Ha espresso un’opinione personale e non me ne meraviglio ma ricordiamoci che c’è un contratto». Nessuna possibilità di sfiduciare Tria, ma in questo caso parla soltanto a nome suo. Solo che non è vero, e lo sanno anche i capi dei 5S.

Se Tria è irrotto in quel modo in una partita la cui delicatezza certo non gli sfugge e argomentando che l’analisi costi-benefici significa ben poco a fronte della minaccia di non investire più in Italia significa che quella minaccia, per non dire ricatto, è concretissima. Il Tav, insomma, s’ha da fare a ogni costo.