In uno dei suoi ultimi dialoghi, nel marzo del 1832, Goethe consegnava alla memoria dell’amico e segretario Eckermann un aforisma tanto emblematico per la sua concezione dell’arte quanto fatale per le scelte compiute dai suoi successori: «Se un poeta vuole agire da politico deve prendere partito, ma non appena lo fa, come poeta è finito». Per esemplificare il suo ragionamento menzionava, fra l’altro, i poeti che avevano cercato di dimostrare il loro impegno civile al tempo delle guerre napoleoniche. «Il poeta inglese Thomson», ricordava, «aveva scritto un’ottima lirica sulle stagioni, ma ne aveva anche scritta una pessima sulla libertà, non per mancanza di poesie nel poeta, ma per mancanza di poesia nel tema».

Il valore della forma
La tentazione goethiana di conservare uno sguardo estetico, imparziale e sovrano, anche di fronte ai più straordinari sconvolgimenti politici contraddistingue, con poche eccezioni, le fasi maggiori della storia moderna della letteratura tedesca e, al di là delle apparenze, genera frutti anche in autori insospettabili: è quello sguardo che permette a Büchner di restituire con identica evidenza le ragioni di Danton e di Robespierre nel suo grande dramma rivoluzionario; ed è quello stesso sguardo che rende possibile a Brecht conferire ai suoi personaggi la loro grandiosa ambivalenza. Del resto, scriveva Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico, ogni contenuto intellettuale, nell’opera d’arte, ha valore solo nell’ottica della forma, della composizione, e lo scrittore non è veramente responsabile delle idee a cui dà voce poiché la liberta estetica gli permette, in qualsiasi momento, di esprimere anche quelle esattamente opposte per ragioni poetiche.
Fa impressione, su questo sfondo, rileggere gli scritti e gli interventi politici del Mann posteriore al 1918, del difensore della Repubblica di Weimar e della politica socialdemocratica di Stresemann, del fiero e lucidissimo oppositore dei fascismi europei nei Moniti all’Europa – la raccolta di saggi e discorsi assemblata da Lavinia Mazzucchetti nel 1947 – che Mondadori ripubblica in forma pressoché invariata in un prezioso volume degli Oscar (prefazione di Giorgio Napolitano, pp. 350, euro 15,00).
È proprio il talento poetico di Mann a rendere le sue riflessioni civili un unicum nel contesto di quegli anni: come se la sua più autentica metamorfosi intellettuale non si sia compiuta nel passaggio dalla retorica nazionalistica e conservatrice delle Considerazioni alla lotta per la difesa della democrazia tedesca, ma nell’improvvisa scoperta del valore della forma per il contenuto del discorso politico.

Questa metamorfosi spiega la complessità, la difficoltà, l’apparente disponibilità alla divagazione, all’accostamento sorprendente quando non eccentrico che caratterizza la prosa politica di Mann, soprattutto nelle due grandi conferenze Della repubblica tedesca e Un appello alla ragione. Perché accostare – nella prima – Novalis a un poeta allora non ancora molto conosciuto come Withman? Perché perorare la causa della repubblica con il richiamo al romanticismo? E che effetto potrà mai aver sortito il tentativo di vedere nell’omosessualità delle trincee il legame fondante della democrazia tedesca?

Ogni riga sembra scritta per contraddire o relativizzare il contenuto politico del ragionamento. Eppure proprio in questi accostamenti sta l’essenza del discorso di Mann, che concepisce sempre la politica come parte indivisibile della cultura o, più precisamente, della cultura come espressione totale della natura umana. Non si dà vero ragionamento politico che non consideri se stesso come parte di un discorso universale e cosmopolita nel quale il pensiero del nuovo attinge alla più alte espressioni artistiche e intellettuali della storia dell’uomo.
Nel discorso Sulla repubblica tedesca è questa l’idea conservatrice che Mann attribuisce a se stesso come erede del romanticismo. Anche Novalis – scrive – era conservatore: ma «non al servizio del passato e della reazione» bensì «del futuro; la sua preoccupazione era di conservare quel perno, quel nucleo, a cui il Nuovo potesse aderire formandosi attorno ad esso in belle forme».

Questo richiamo alla storia e alla cultura come fondamento di un futuro che non sorga demagogicamente dal mero rigetto del passato, ma ne sia la conseguenza e il superamento, distingue Mann dall’estremismo ideologico, che egli fa coincidere con l’abbandono programmatico della civiltà e l’azzeramento delle sue conquiste. È un orientamento esemplificato, ancora, nel discorso del 1922, con una critica a Spengler e all’enorme successo delle sue concezioni storiche: «Il suo Tramonto dell’Occidente», scrive Mann, «è il prodotto di un’enorme potenza e forza di volontà», ma anche un’espressione di «estrema inumanità» laddove pretende di esortare a non perseguire «cose come l’arte, la poesia, la formazione spirituale».

Vero e proprio erede del pensiero politico-morale di Schiller, Mann sa che il rischio non è l’imbarbarimento dell’uomo, ma la rinuncia entusiastica all’identità razionale e intellettuale in favore di un’azione dettata da impulsi ciechi e strumentalmente coordinati, poiché – come scriveva il suo predecessore, «l’uomo, nella sua natura sensibile, non può precipitare più in basso della natura animale, se però cade l’uomo illuminato, cade fino alla natura diabolica e gioca empiamente con quanto di più sacro l’umanità possiede».

In vacanza dal proprio Io Ricostruendo nel suo Appello alla ragione la situazione psicologica della Germania dopo la fine della Prima guerra mondiale Mann ricorda: «Al tramonto economico della classe media si unì (…) il sentimento di una svolta storica che annunciava la fine dell’epoca borghese, datante dalla Rivoluzione francese e del suo mondo ideologico (…); era come un regresso irrazionalistico, che poneva il concetto della vita al centro del pensiero, che esaltava le forze dell’inconscio, del dinamico, dell’oscuro potere creativo come sole dispensatrici di vita mentre respingeva come uccisore della vita lo spirito». Contro gli esiti fatali di tutto questo e contro le ombre che l’ascesa improvvisa del partito nazionalsocialista ha conosciuto nelle elezioni del 1930, Mann concepisce ora un’idea difensiva di cultura come unità di misura della politica, o meglio del suo contenuto spirituale e della sua capacità di nutrire non solo gli istinti ma il pensiero di un’umanità sempre più pericolosamente massificata. «Quello che la generazione collettivistica si augura», scrive ancora in Attenzione, Europa!, «sono le vacanze continuate dal proprio Io. Ciò che vuole, ciò che ama è l’ebbrezza». La cultura come politica deve essere, al contrario, la restituzione dell’Io alla sua identità intellettuale e umana come strumento di azione.

Dopo la fuga del ’33
Il trionfo del nazionalsocialismo segna la fine di ogni illusione. Mann fugge dalla Germania hitleriana già nel 1933. Ma anche nella sconfitta, anche nell’esilio, prima in Svizzera e in Francia, poi negli Stati Uniti, non rinuncia a opporsi al dilagare europeo del totalitarismo fascista. Gli scritti sulla guerra di Spagna, sulla democrazia e sulla libertà, composti fra il 1937 e il 1939, sono manifesti di quello che a Mann appare come un nuovo, necessario umanesimo, cui peraltro, fin dai tempi delle Considerazioni di un impolitico, non aveva mai risparmiato critiche.