L’inchiesta sulla tortura a morte di Giulio Regeni è arenata, come potevamo purtroppo aspettarci. Il ricercatore italiano di 28 anni è scomparso nel centro del Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, quando i quartieri della capitale erano controllati palmo a palmo dalle forze di sicurezza, messe in allerta massima per il quinto anniversario delle rivolte anti-Mubarak. È ora certo che Regeni sia stato lungamente e meticolosamente torturato, prima che le sue spoglie fossero gettate in un fosso nella periferia del Cairo, dove il corpo è stato ritrovato il 3 febbraio.

Non c’è niente di peggio della solitudine di una vittima abbandonata ai suoi carnefici, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Il New York Times ha ricostruito delle testimonianze sull’arresto di Giulio Regeni da parte dei servizi egiziani e sulla sua detenzione nelle loro mani. Magdy Abdel Ghaffar, il ministro dell’Interno, ha indetto una conferenza stampa straordinaria per smentire categoricamente tutte queste accuse. È vero che lui stesso ha fatto tutta la sua carriera nella sinistra Sicurezza nazionale, precedentemente chiamata Sicurezza di Stato, verso la quale si orientano tutti i sospetti.

Più di quattro mila universitari di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera aperta al presidente Abdel Fattah al-Sisi perché si faccia luce su questo dramma. Il portavoce del ministero degli Esteri egiziano ha subito reagito esprimendo il suo «rifiuto totale per le affermazioni contenute in questa lettera sugli arresti sommari, le torture e le sparizioni in Egitto». Ha aggiunto che queste affermazioni «deformano completamente la realtà sul campo e rappresentano delle generalizzazioni basate sul sentito dire e su manipolazioni di chi vuole riprendere piede in Egitto dopo essere stato cacciato dal popolo». Questa espressione era rivolta ai Fratelli musulmani, da cui proveniva il presidente Mohammed Morsi, rovesciato nel luglio 2013 dal generale al-Sisi.

Ho potuto misurare, durante un mio recente soggiorno al Cairo, quanto le teorie del complotto, già molto popolari in Egitto, abbiano preso, durante la presidenza al-Sisi, una dimensione aggressiva e anti-occidentale di una virulenza senza precedenti.

I Fratelli musulmani sono assimilati ai jihadisti di Daesh e stigmatizzati per lo stesso «terrorismo». Gli uni e gli altri parteciperebbero ad una vasta campagna internazionale di destabilizzazione dell’Egitto da parte di Servizi stranieri di informazione. In un clima così deleterio, non stupisce che una stampa agli ordini del regime abbia ripreso delle illazioni nauseabonde sui supposti legami tra Regeni con questo o quell’altro ufficio anglo-sassone (prima di ammettere la morte sotto tortura, le autorità avevano tentato in vano di accreditare la versione di un incidente automobilistico, poi di un crimine sessuale).

L’inchiesta sulla morte di Regeni è stata affidata a un ufficiale egiziano… condannato nel 2003 per tortura su un detenuto. L’impunità assoluta di cui gioiscono i servizi di «sicurezza» in Egitto si è tradotta in questi ultimi giorni in proscioglimenti scandalosi: è stata cancellata in appello, il 14 febbraio 2016, la condanna pronunciata contro i poliziotti che avevano ucciso con dei colpi di pistola una manifestante pacifica, Shaimaa el-Sabbagh, nel gennaio 2015, nel quarto anniversario dalle proteste anti-Mubarak. Il 17 febbraio, studenti e insegnanti dell’Università americana del Cairo (denominata con la sua sigla inglese Auc) hanno manifestato in memoria di Giulio Regeni ricordando come «la bolla dell’Auc non ci protegge».
L’Italia viene davvero mal ricompensata della comprensione di cui aveva dato pubblicamente prova dopo il colpo di Stato di al-Sisi del 2013. Il premier Matteo Renzi, accogliendo al-Sisi nel suo primo viaggio in Europa, nel novembre 2014, aveva celebrato il «partenariato strategico» tra Roma e il Cairo. Il supplizio di Giulio Regeni non dovrebbe preoccupare solo l’Italia, ma è una sfida per l’intera Europa, il cui silenzio è stato assordante dopo la rivelazione del dramma.

Quanto ai «realisti», che difendono la cooperazione più stretta possibile con i servizi egiziani nella lotta al terrorismo, e sono indulgenti verso gli «eccessi» di una tale lotta, guadagnerebbero molto se meditassero sulle lezioni del caso Regeni. La verità è che mezzo milione di militari egiziani confermano dopo anni di essere incapaci di ridurre una insurrezione jihadista nel Sinai che conta su poco più di mille combattenti. La realtà è che i servizi detti di «sicurezza» sono responsabili in Egitto di un’insicurezza generalizzata per l’impunità che è loro garantita. No, non dispiaccia ai «realisti», ma assolvere il regime di al-Sisi per i crimini perpetrati nel suo nome o nella sua ombra rivela una delle cecità più pericolose. Non possiamo che sostenere coloro i quali, come Thibaut Poirot su Le Monde, chiedono invece all’Europa di mobilitarsi perché venga fatta luce sulla verità nel caso della morte di Giulio Regeni. Da parte mia, dopo il minuto di silenzio che ha aperto la mia recente conferenza al Cairo, dedico ogni mio intervento pubblico, a Parigi, Montpellier, Le Hauvre o Saint-Malo, alla memoria del ricercatore suppliziato. Giustizia per Giulio.

* professore di Storia del Medio Oriente, Università Sciences-po Paris