Susan Sontag, in un saggio su Antonin Artaud, scriveva che si può essere bruciati, catturati da Artaud ma che non lo si può usare e strumentalizzare. Estendeva questo punto di vista ad alcuni scrittori da lei definiti «coscienze in extremis» (Un approccio ad Artaud, in Sotto il segno di Saturno, Einaudi). Si avverte, qui, l’influsso diretto di un motivo presente in non pochi testi dello stesso Artaud che scriveva nel 1945: «Amo i poemi degli affamati, dei malati, dei paria, degli avvelenati (…) e i poemi dei suppliziati del linguaggio».

Un linguaggio «suppliziato», quello di Artaud, che ci ricorda da vicino l’estrema sfida mentale e linguistica dello scrittore schizofrenico Louis Wolfson, un altro «schizo» creativo del panorama letterario contemporaneo, un’altra coscienza in extremis, un altro grande suppliziato del linguaggio. L’occasione per parlare di Wolfson è l’uscita di un bel libro collettivo a lui dedicato – Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale – curato per Manifestolibri da Pietro Barbetta ed Enrico Valtellina, animatori, a partire dall’Università di Bergamo, di un gruppo di ricerca sull’intreccio tra psicologia e filosofia. Gli interventi proposti sono tutti di grande qualità: firmati, oltre che dai curatori, da Silvère Lotringer, Tobie Nathan, Giacomo Conserva, Pierre Lepori, il Nobel J.M.G. Le Clézio, Marco Dotti, Lucia Amara, Alain Rey, Alfredo Riponi, Pierre Alferi. Rappresentano, in vari modi, l’esito di un serrato corpo a corpo con la figura e con gli scritti di Wolfson; soprattutto con i suoi due libri: Le Schizo et les langues (Gallimard, con prefazione di Gilles Deleuze), e Ma mère, musicienne est morte ecc. (Navarin 1984, Attila 2012) ora impeccabilmente tradotto da Fabio Montrasi per Einaudi/Stile Libero.
Qualche annotazione, ora, connessa alla lettura di queste Cronache. Spezzare il linguaggio per toccare la vita, scriveva Antonin Artaud: un percorso che porta l’écrivain insurgé, lo scrittore insorto, a problematizzare l’autoevidenza del legame tra significante e significato. Lucia Amara, nel suo contributo «Parlare in lingue. Wolfson/Artaud» sviluppa una profonda analisi critica del rapporto tra il procedimento utilizzato da Artaud nella sua scrittura (e nella sua produzione di glossolalie) e il procedimento di conversione adottato da Wolfson.

Decomposizione fonetica
Wolfson, in effetti, che si autodefinisce «lo studente schizofrenico», «lo psicotico», inventa un procedimento, insieme linguistico e mentale: un procédé – così lo definisce Deleuze nella sua densa prefazione –, consapevolmente mirato a «distruggere la lingua materna». Si tratta di un lavorìo di «traduzione, che implica una decomposizione fonetica della parola»: esso produce, a partire dal «desiderio di uccidere la lingua materna», «una distruzione deliberata, un annichilimento concertato, un disossamento», un «omicidio rituale e propiziatorio della lingua materna». E questo perché tutto parte dal fatto che Wolfson «non sopporta, non può sopportare di sentir parlare sua madre». Così Deleuze, che riprende tale desiderio citando la spiegazione fornita dallo studente: «un desiderio forse vago, se non subconscio e rimosso» di poter sentire la lingua naturale come «esotica, come una mescolanza, come un pot-pourri di diversi idiomi». Ed è questo il cuore del procedimento di Wolfson: trovare, per l’appunto, per ogni parola inglese, un termine equivalente che le corrisponda in lingua diversa e che sia in grado di sostituirla sia nel suono che nel senso. «Assordato» dai vocaboli inglesi proferiti dalla madre e dalle sue ossessionanti domande (ad esempio: «c’è stata una chiamata telefonica?»), lo psicotico deve «convertire» quegli stessi vocaboli. Il problema, perciò, è quello di imparare le lingue per poter realizzare questa conversione delle parole inglesi in parole straniere, senza passare attraverso l’inglese e servendosi di dizionari interlingua. Occorre insomma usare il procedimento per evitare la lingua inglese, per combattere la parola materna, per decostruirla. È il «dramma del transito linguistico», di cui parla il Nobel Le Clézio, che si consuma attraverso un combattimento con la lingua inglese. E la lingua inglese da combattere – come afferma Pietro Barbetta, nel suo contributo – è «quella specie di maccheronica lingua franca… parlata a livello internazionale, composta di un migliaio di termini, quella degli scienziati e dei signori di internet. Non quella di Shakespeare e di Melville».

Le parole materne rappresentano il grido della vita: il grido di quella méchante matière malade, di quella maligna materia malata – così la definisce lo studente schizofrenico –, da cui è possibile difendersi e proteggersi attraverso gli spostamenti e i giochi della linguistica. Le risorse del procedimento affondano le loro radici nei saperi del linguaggio e instaurano un tragico dualismo tra sapere e vita, accentuato dalla natura stessa delle parole materne: oggetti parziali – scrive Deleuze – «ribelli ad ogni trasformazione». Si situa proprio all’interno di questa tensione tragica tra il sapere e la vita il titanico lavorìo dello studente schizofrenico: il suo primo libro è strutturato, secondo Barbetta, come una sorta di Bildungsroman – un singolare romanzo di formazione – dominato, soprattutto nel capitolo sulla prostituta, sia dall’uso della terza persona, frequente, come è noto, tra gli schizofrenici, sia dal sistematico ricorso al condizionale: due maniere per rendere sfuggenti e inafferrabili gli eventi e i soggetti coinvolti e designati. Attraverso le parole straniere e i giochi linguistici, occorre soffocare la voce della madre: le sue parole inglesi, ma anche l’esecrabile e disgustoso nutrimento che essa infligge maniacalmente al figlio.

Una speranza di riscatto
Il «grido della vita» e l’erompere della sofferenza rappresentano una sorta di matrice nascosta del procedimento; esso affonda le sue radici in una matrice emotiva: «un fattore emotivo», la cui presenza viene messa in scena da Alfredo Riponi in un contributo che ha il merito, tra l’altro, di restituirci, tradotti, molti passaggi significativi del suo libro. Credo che una cartografia di questo fattore emotivo, entro l’opera di Wolfson, potrebbe farci accedere al mondo affettivo dell’autore, dove emerge qualcosa come l’espérance: speranza di riscatto e di riconciliazione. «Vi è anche della speranza – leggiamo – che il giovane uomo sarà un giorno capace, di nuovo, di usare normalmente» l’inglese. In questo modo, forse, egli «troverebbe così la sua libertà perduta? Chi lo sa?…». Questa la conclusione del libro. La speranza come prospettiva di una riconquista della libertà perduta. Come possibilità di liberarsi dalle catene della coazione e dall’inferno della ripetizione.