Sull’onda lunga di una striscia notevolissima di riconoscimenti ottenuti in patria e all’estero, giunge anche in Italia Il superstite, ossia For Those in Peril, esordio sulla lunga distanza di Paul Wright, presentato a Cannes lo scorso anno nell’ambito della Semaine de la critique. Autentico tour de force formale, il film gioca con grande spregiudicatezza l’indeterminazione dei piani del racconto, secondo la lezione del documentario di creazione degli ultimi anni.

Realizzato interamente sulle coste dello Aberdeenshire, Il superstite (ma è infinitamente più potente il titolo originale), originariamente intitolato semplicemente Seaside Stories, è un racconto di mare che richiama alla memoria ovviamente i nomi di Joseph Conrad e, soprattutto, Herman Melville, evocato in più di un’occasione con evidente precisione.

Dopo aver perso il fratello Michael in mare, Aaron (un interessante e disturbante George McKay), deve subire il disprezzo della comunità dei pescatori del suo villaggio che lo accusano di codardia e, addirittura, di avere provocato la morte del fratello per mettersi con Jane (Nichola Burley), la sua fidanzata, relazione questa ostacolata dal padre di lei (Michael Smiley, già visto in Kill List). Nel mettere in scena lo smarrimento di Aaron, Wright ricorre con grande spregiudicatezza a una spericolata commistione formale, accostando modalità narrative apparentemente stridenti e sovrapponendole quasi senza soluzione di continuità. Giocando la carta dell’indecidibilità del reale, Wright utilizza abilmente l’oscillazione degli indici di realtà per dare forma a un racconto aperto che progressivamente s’immerge nello sguardo del protagonista imprimendo così la torsione determinate al film.

L’abilità con la quale Wright si muove fra le diverse modalità di racconto è funzionale non tanto alla sospensione dell’incredulità, considerato l’ambientazione realista del film che deve molto al primissimo Loach, quanto a manipolare i registri del racconto che, attraverso una serie pressoché continua di torsioni, si rivela solo nel sorprendente finale. Paul Wright non teme l’eccesso né tantomeno l’accumulo e se anche il suo funambolismo visivo talvolta lasci più perplessi che altro, non si negare l’evidenza di un talento scalpitante pure se magari attratto un po’ troppo da certi determinismi normativi che vanno per la maggiore. A convincere, o meglio a intrigare, semmai, è la consumata abilità narrativa di Wright, che controlla con mano, a volte sin sin troppo sicura, le numerose articolazioni del racconto. È proprio questa eccessiva sicurezza, a tratti asfittica, a suscitare i maggiori dubbi. Un sincretismo formale espressione di una tendenza fortemente sostenuta da enti produttivi e festival (il caso macroscopico Reygadas) sempre a rischio di ripiegarsi su stessa. Ciò che invece sorprende positivamente nel film di Paul Wright, cineasta che potremmo inscrivere nell’alveo del cinema britannico post-Ben Wheatley, è la sua padronanza nel gestire le derive del racconto fantastico, restando ancorato a una dimensione realistica addirittura documentaria.

In questo senso – per provare a dare un’idea paradossale del film – Il superstite si offre come la somma algebrica fra Ken Loach, Philip Ridley e The Wicker Man. Si tratta solo di macro riferimenti, ben inteso, che non esauriscono le potenzialità del talento di Paul Wright che, al netto dei limiti di un’opera prima affascinante e imperfetta, vanta evidenti margini di miglioramento. E l’ultima inquadratura del film, sorprendente, sembra proprio offrirsi come viatico di un cinema ancora tutto da venire e da fare. Ed è proprio quest’inquadratura finale, contenente il mistero del film, a relativizzare le imperfezioni di un lavoro follemente ambizioso che osa ribaltare ancora una volta, e proprio sul finire, il senso di una vita tesa fra il cielo e il mare. Come un’epifania melvilliana filmata da Ken Loach.