Tre parole messe in fila, tante possibili interpretazioni per schiudere lo scrigno del significato. Che forse non è uno solo, come spesso avviene quando si maneggiano cose importanti per la vita. Le tre parole: La musica provata.

Che può voler dire: «la musica che mi (ci) ha attraversato l’esistenza, e della quale siamo riusciti a fare esperienza». Sono tanti i significati nelle tre parole che Erri De Luca ha voluto per intitolare la sua personale trilogia legata alla pesantissima leggerezza dei suoni e delle canzoni, uscita in questi giorni come film e Dvd per OhPen (scrittura assieme a Emanuele Sana) e libro edito per Feltrinelli.

Un punto e a capo sulla «sua» musica che forse i lettori di Erri De Luca aspettavano, dallo scrittore che forse più di ogni altro, in Italia, ha rimesso in moto il misterioso cortocircuito millenario delle parole che si fanno suono e del suono che si fa parola.

E questa volta tutta la sua musica che aveva quasi bussato alla porta e chiesto con gentilezza il permesso per uscire negli spettacoli sui palchi con Gianmaria Testa e Gabriele Mirabassi ed altrove esce precisa e scolpita, in un gioco prismatico di nitore perfetto che mette in conto l’abbozzo e la prova finita, e l’eleganza matura del jazz che veste ogni materiale musicale.

E qui il merito è di Stefano Di Battista, chiamato ancora una volta a misurarsi con le canzoni. Ma qui sono le canzoni di Erri De Luca, e si rischia il doppio salto mortale, superato con leggerezza e sapienza scaltrita. Racconta a inizio filmato del problema di «nascere stonato in una città musicale». Una città, come dice lui, che è «naturalmente acustica, perché sotto è cava , è vuota, è scavata. Napoli è un tamburo che risuona». E lui si ritrova in questa città dove la musica è sopra e sotto ed in ogni luogo, come la divinità, e si ritrova stonato: «Non avevo orecchio per la musica.

A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno corretto inculcandomi musica fino a farmi intonato. Ma ero anche, di preferenza, zitto. Allora le canzoni mi hanno aperto le vie ingolfate delle corde vocali. Ho imparato a parlare come i balbuzienti: cantando. Perciò la musica mi ha medicato.» Mille racconti nel film, i natali in cui Erri impara a cantare col padre non le canzoni della sua tradizione sentimentale. La prima chitarra gliela regala il padre, lui impara gli accordi e come si maneggiano i tempi della musica con Eduardo Caliendo, il chitarrista di Roberto Murolo.

Nel 1964, a quattordici anni ha tra le mani il primo disco di Bob Dylan. Non è stato un ascolto semiclandestino, una conquista a dispetto del mondo degli adulti: glielo ha messo tra le mani il padre. Dice a un certo punto Erri che «le canzoni, come gli odori e più della vista affilano i ricordi», e i ricordi personali di Erri De Luca sono quasi sempre il contrario della narcisistica contemplazione del proprio ombelico. «Mi arrivano prima le parole.

Poi la melodia. Una e una sola. Mai il contrario», spiega lo scrittore. Così è nata ad esempio a Barcellona, vergata su un foglietto, Essere di Medit, magnifica meditazione sulle genti che si affannano attorno alle sponde di un mare -lago dove la divinità è divisa in tre religioni, numero «plurale e litigioso». Ma le canzoni di Erri non sono solo le «sue» canzoni, troverete Addio Lugano bella e Era de maggio, cantata (o meglio: sussurrata) da Erri assieme a Isa Danieli, e le poesie messe in musica dell’amico di Sarajevo Izet Sarajilic, del grande lirico turco Nazim Hikmet.

Uno scantinato è la palestra di prova per le canzoni di Erri riavvolte in caldo jazz dal tocco di De Battista, dalla mobilissima fisarmonica di Luciano Biondini, e soprattutto dalla voce di Nicky Nicolai. Da qui arrivano alcune delle più belle riprese, con Erri che imbraccia la sua chitarra di legno chiaro, accenna qualche accordo, e i musicisti che ricercano poi gli angoli nascosti di quelle melodie semplici nate per portare il carico di parole pesanti, scritte dall’uomo asciutto con il volto scritto dalle rughe. È la «musica provata». In ogni senso.