Andrew O’Hagan, il suono ordinario della perdita
L'intervista Lo scrittore scozzese, ospite al festival Letterature nella sua serata inaugurale del 12 luglio, allo Stadio Palatino a Roma, parla del suo romanzo «Effimeri», per Bompiani. Un’amicizia maschile che attraversa la Glasgow degli anni ’80 fino a un drammatico epilogo. «Ho sentito che c’era qualcosa di molto contemporaneo - molto attuale - nella nozione di luoghi, persone e modi di vivere che muoiono, e l’ho sentito fin da quando ero giovane»
L'intervista Lo scrittore scozzese, ospite al festival Letterature nella sua serata inaugurale del 12 luglio, allo Stadio Palatino a Roma, parla del suo romanzo «Effimeri», per Bompiani. Un’amicizia maschile che attraversa la Glasgow degli anni ’80 fino a un drammatico epilogo. «Ho sentito che c’era qualcosa di molto contemporaneo - molto attuale - nella nozione di luoghi, persone e modi di vivere che muoiono, e l’ho sentito fin da quando ero giovane»
L’amicizia tra Jimmy, meglio noto come Noodles, e Tully è fatta di musica, film, del comune sguardo irriverente, ma mai cinico, verso il mondo che li circonda, una cittadina operaia scozzese che nell’estate del 1986 è ancora intenta a leccarsi le ferite della sconfitta patita dai minatori, malgrado il coraggio dimostrato, ad opera della Thatcher.
L’atmosfera è carica degli umori malinconici ma determinati del post-punk di cui Manchester è rapidamente divenuta la capitale e dove i due ragazzi si recano per una sorta di pellegrinaggio laico. La musica sfuma d’improvviso e trent’anni dopo è un Tully prossimo alla fine che si rivolge a Jimmy per chiedergli un estremo atto di coraggio in nome di quel legame indissolubile che avevano contratto un tempo.
Effimeri (Bompiani, pp. 288, euro 18, traduzione di Marco Drago) conferma l’estrema capacità di Andrew O’Hagan, autore, tra gli altri suoi titoli, di Ai nostri padri (Frassinelli) e La vita segreta: tre storie vere dell’era digitale (Adelphi), di intrecciare la riflessione sul senso di ciò che si perde con la consapevolezza che la forza dei sentimenti, e della gioia condivisa possono nutrire la nostra anima fino all’ultimo istante. Il 54enne scrittore di Glasgow, tra le voci più significative della nuova narrativa scozzese, sarà martedì tra i protagonisti della serata inaugurale del festival Letterature che si svolge presso lo Stadio Palatino di Roma. O’Hagan sarà al fianco di Javier Cercas, Emmanuelle Pagano e del vincitore dello Strega, Mario Desiati.
La storia che racconta in «Effimeri» ha a che fare con la sua giovinezza nella Scozia degli anni ’80, con ciò che di quella stagione le è rimasto dentro e con ciò che è andato perduto: come è nato il romanzo?
L’ho scritto come atto di memoria. Abbiamo tutti delle amicizie che formano le nostre vite e che, a un certo punto, hanno cambiato la direzione in cui stavamo andando. Le mie amicizie da adolescente erano magiche: erano vive a un livello incredibile e, quando uno dei miei migliori amici è morto, ho voluto scrivere un monumento all’amicizia maschile. In questi tempi si sente così tanto parlare di «mascolinità tossica»: volevo scrivere del contrario, una storia sulla bellezza e la verità che possono circondare l’amicizia. Non mi ha sorpreso il fatto che i lettori abbiano risposto positivamente al libro, perché non erano abituati a sentir parlare del lato positivo degli uomini: il lato amoroso.
Il romanzo è costituito di due parti: se nella prima domina l’ironia e il senso di un orizzonte da conquistare, nella seconda emerge l’ombra cupa della fine, della perdita. È il senso profondo dell’amicizia a riuscire a legare così strettamente questi due aspetti?
Ero di fronte a un dilemma filosofico. Da grandi amici, ci aiutiamo a vicenda a vivere, ma siamo anche tenuti ad aiutarci a vicenda a morire? Come recita il titolo, siamo qui solo per poco tempo – siamo effimeri – e ho voluto scrivere una storia che mettesse alla prova la moralità di tali rapporti. Eravamo pieni di impegno e di promesse quando eravamo giovani: potevamo mostrare quell’impegno, in un modo diverso, quando è sceso il buio? Ho attinto alla mia autobiografia per raccontare questa storia: quando il mio amico stava morendo, mi ha chiesto di aiutarlo a lasciare il mondo. Ho fatto del mio meglio per aiutarlo e il libro mette in scena quella lotta. Abbiamo raggiunto una nuova vicinanza attraverso quel tentativo, anche se è la storia più gioiosa e più triste che potrò mai raccontare.
«Effimeri» descrive un’epoca nella quale la musica aveva un significato tangibile nella vita dei giovani: Jimmy (Noodles) e Tully ascoltano ogni sera John Peel e partono per Manchester che era un po’ la capitale del sound del momento. Che peso ha avuto la musica nella sua formazione? E qualche gruppo in modo particolare?
Da adolescente ero ossessionato dalla musica. Ai miei occhi rappresentava un sistema di valori completo: amavo i Joy Division, The Smiths, The Fall, The Go-Betweens e sentivo che quelle band avevano una visione della vita, una visione di appartenenza e di responsabilità politica, che migliorava la mia e le nostre vite. Eravamo al passo con le band, siamo cresciuti con loro e la musica era il bagliore che ci teneva tutti insieme. Anche se abbiamo convissuto per così tanto tempo con la cultura popolare, occupa ancora troppo poco spazio nei romanzi contemporanei. Amo quando un’opera di finzione pulsa del suono della musica che modella la vita dei personaggi.
Fin da «Ai nostri padri» e ancora prima da «The Missing», nei suoi libri sembra di poter scorgere una particolare attenzione per l’assenza, per il senso della perdita, per ciò che ci lasciamo alle spalle. Sono sentimenti che la interrogano?
Si tratta di un tema centrale in tutta la mia vita di scrittore. Ho sentito che c’era qualcosa di molto contemporaneo – molto attuale – nella nozione di luoghi, persone e modi di vivere che muoiono, e l’ho sentito fin da quando ero molto giovane. Questa consapevolezza è poi cresciuta con la mia esperienza. Penso di voler tracciare i modi in cui la realtà concreta e materiale si sta allontanando per sempre, specialmente nell’era di Internet, e sento il potere della perdita in quasi tutto ciò che mi circonda. Non è necessariamente una sensazione triste: la vita è sempre una perdita, il tempo che passa è lì ad indicarcelo, e tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria, ma ci sono nuovi modi di esistere fuori dal tempo e fuori dalla realtà quotidiana (basta guardare i social media, basta guardare gli ologrammi di cantanti morti che riempiono le sale da concerto). Queste cose mi hanno sempre affascinato e spinto a scrivere del modo in cui viviamo in una forma nuova. Così come Primo Levi vedeva l’invisibilità nelle nostre città, nelle nostre biografie io vedo l’assenza e, in qualche modo, la presenza dell’assenza è diventata una convinzione centrale nella mia scrittura.
La Scozia sembra nutrire un forte sentimento della perdita: un mondo della working class scomparso, gli ideali delle lotte dei minatori sconfitti dal liberismo, l’esodo da molte località verso Londra o le altre metropoli. In che termini questa memoria ferita appartiene anche a lei?
Sento di aver subito delle perdite, o delle sconfitte politiche sul piano personale. L’ho sempre sentito. Lo sciopero dei minatori compare in Effimeri non solo come una fredda notizia, ma come un evento storico che sembrava intimo, più che presente nella vita delle persone con cui sono cresciuto. La storia non era un evento accaduto altrove; stava accadendo nei nostri cuori e nelle nostre menti. E mi piace catturare questa sensazione e questa consapevolezza. Il mondo e tutti i suoi eventi sono di proprietà di ciascuno di noi allo stesso modo, o almeno dovrebbero esserlo. È quando perdiamo il contatto con tutto ciò, ci distacchiamo dalle forze che modellano il mondo, che una certa sconfitta entra nelle nostre società. Credo che lo scopo della nostra vita sia migliorare il patrimonio dell’esistenza umana, per arricchire la realtà, se si vuole. Ciò significa partecipare alla vita profondamente e non permettere mai alle macchine del marketing o dell’economia di sostituire la nostra stessa meraviglia.
Dieci anni fa ha lavorato come ghostwriter a un progetto di autobiografia di Julian Assange, un’idea poi scartata dal fondatore di Wikileaks. In proposito ha spiegato come «l’uomo che si è incaricato di rivelare i segreti del mondo, non sopportava che i suoi fossero rivelati». Come sono andate le cose?
È una lunga storia. Per me, Julian è un uomo rappresentativo dell’era di Internet. Ha ragione su molte cose ed è vulnerabile e la libertà di parola deve essere protetta, ma si è rivelato fin troppo umano, fin troppo delirante, e si è perso nella sua causa. Per me è un esempio di come l’ego umano può interferire con il più forte idealismo. Assange era il tipo d’uomo, e credo lo sia ancora, che Scott Fitzgerald avrebbe trovato affascinante, un Gatsby contemporaneo, con una fantastica capacità di meraviglia e una quasi altrettanto infinita possibilità di illusione. Julian era uno dei peggiori nemici di se stesso, ma ho cercato di essere onesto con lui. Ma non era proprio il suo genere: lui scambia la lealtà personale nei suoi confronti per l’integrità verso la causa della libertà di stampa, ed è il tipo di errore che può rovinare la vita di un uomo. Detto questo, lo difendo contro ogni tentativo delle autorità americane di farlo tacere o di punirlo per il suo lavoro. Gli auguro il meglio.
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