Un lume acceso sopra un mobile, accanto a un vecchio televisore in bianco e nero, un posacenere colmo di mozziconi di sigarette, le tazze da caffè in evidenza e il Memphis Press appoggiato sopra uno dei due letti. È rimasta così, dal 4 aprile del 1968, la grigia stanza numero 306 al II piano del Lorraine Motel dove Martin Luther King, appena arrivato in città per partecipare alla «marcia degli spazzini», venne assassinato da un colpo di fucile alla testa mentre stava conversando in balcone con i suoi collaboratori. Nessuna cospirazione, fu l’isolata azione di un folle, di un one crazy man (al secolo Earl Ray) a eliminare il reverendo King, secondo la versione ufficiale a cui nessuno, a cominciare dalla commissione d’indagine creata dal Congresso, ha mai veramente creduto. Come d’altronde era successo a Dallas, qualche anno prima. E come succederà ancora solo due mesi dopo, con la morte di Bob Kennedy, la sera di una vittoria decisiva per le primarie democratiche del 1968. Coni d’ombra di un’America impaurita.

Il suono dei «disadattati sociali»

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Oggi il Lorren Motel non esiste più, è stato trasformato da tempo in uno straordinario «National civil rights museum» che ripercorre la storia di Martin Luther King e più in generale quella del movimento per i diritti civili, che ha visto Memphis svolgere un ruolo di primo piano. E allora conviene partire da qui, prima ancora che da sua maestà Elvis, per provare a comprendere l’anima di questa sfuggente città, dove gli operai della nettezza urbana in sciopero manifestarono con un cartello appeso al collo con la scritta «I’m a man», rivendicando diritti e pari dignità. Primo passo di una rivoluzione che cinquant’anni dopo avrebbe portato alla Casa Bianca il primo presidente nero della storia americana. Quel Barack Obama che nel 2012, nella cerimonia di insediamento per il II mandato, giurò sulla bibbia di Martin Luther King.

Povera e seducente, decadente e vitale, spesso in prima fila quando si tratta di stilare classifiche sulle metropoli più pericolose, Memphis è sempre stato un luogo pieno di contraddizioni ma anche di grande vitalità e di singolari innovazioni. Con una spiccata attitudine imprenditoriale che si riversò anche in campo musicale, in una città dove la ferrovia, il fiume e le highway sembrano essere nate per congiungere «people to the music».

Non è casuale che qui la contaminazione di Blues, Gospel e Country music abbia dato vita a uno strano e ibrido sound in seguito chiamato rock&roll. Eppure, ogni tentativo di organizzare e istituzionalizzare una sorta di comunità musicale da queste parti si è quasi sempre rivelato un fallimento.

La musica di Memphis, ha scritto Robert Gordon in It came from Memphis, è un qualcosa che «è stato prodotto da un gruppo di disadattati sociali, in una stanza buia nel cuore della notte». Nessun disc jockey, banchiere, comitato o grande vecchio a tirare le fila.

Sun Record, dalla notte al sole

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Così, quando nei primi anni Cinquanta un ragazzo proveniente dall’Alabama di nome Sam Phillips aprì lo studio di registrazione «Memphis Recording Service» (e due anni più tardi una vera e propria etichetta discografica, la Sun Record), convinto che il blues meritasse un pubblico più numeroso di quello tradizionale legato all’uomo di colore del Mid South, furono in pochi a non considerare questa idea come semplicemente folle. Ma forse il ragazzo dell’Alabama era capitato nel posto giusto al momento giusto. Quel «nuovo giorno» e quella «nuova opportunità», evocati da Phillips per spiegare il nome, e il simbolo, della nuova etichetta discografica, arrivarono, un po’ a sorpresa, un’arida giornata estiva del 1953 quando un giovanotto timido e insicuro, che aveva «uno sguardo di disperato bisogno che emergeva dai suoi occhi», fece il suo ingresso alla Sun, accolto da una donna bionda di 35 anni rinchiusa in un elegante completino di cotone, Marion Kessler, passata alla storia come come colei che scoprì Elvis Presley. Il rock’n’roll aveva trovato il suo profeta.

Il giorno del mio arrivo alla Sun, un vecchio edificio di mattoni rossi una manciata di chilometri fuori downtown, vengo accolto dalla voce di un giovane Elvis che canta «I forgot to remember to forgot», l’ultima canzone incisa per l’etichetta di Phillips. Per quanto turistico, con oltre 200 mila visitatori l’anno, l’ex studio, piccolo e buio, trasmette realmente emozioni musicali. «Bob Dylan baciò il pavimento quando entrò per la prima volta al Sun studio», mi confida un commesso vedendomi spaesato, nel chiaro tentativo di amplificarne il mito.

Alle pareti c’è la storia della casa discografica: buffi abiti di scena, cimeli provenienti da ogni parte d’America, poster, manifesti di vecchi concerti e dischi di ogni tipo e forma. Una giovane ragazza dai capelli blu, gli occhi furbi e la parlata un po’ troppo «local» conduce gli avventori attraverso un veloce ma puntuale tour della Sun, inframmezzato dall’ascolto di brevi spezzoni registrati di alcune canzoni che hanno reso questo luogo così famoso.

Qualcuno balla, qualcun altro sorride appena, una signora inglese addirittura si commuove, rievocando momenti di antica gioventù. Scendiamo poi lungo una ripida scala di legno a chiocciola che ci conduce davanti all’ingresso dello studio di registrazione. La scrivania di Marion Kessler è ancora li, con tanto di telefono e targa con nome, a imperitura memoria. Un tempo anello di congiunzione tra la strada e la gloria. In fondo alla sala, un’esibizione sfarzosa di storiche chitarre, microfoni originali del tempo e una foto appesa alla parete che riporta le lancette dell’orologio ad un pomeriggio d’inverno nel 1956. Carl Perkins stava registrando accompagnato da Jerry Lee Lewis al piano, quando si presentarono alla Sun Johnny Cash, chiamato da Sam Phillips per altri motivi, e Elvis Presley, che passava di lì per un rapido saluto. Nel giro di venti minuti si ritrovarono tutti insieme in studio di registrazione per una delle jam session più curiose e anomale della storia della musica americana, passata alla storia con il nome di «Million Dollar Quartet». Abbandono la sala mentre il resto della truppa si lancia in orgiastici rituali fotografici di fine tour, il microfono maneggiato un tempo da Elvis è il più gettonato, e seguo la via d’uscita. Mi aspetta l’autobus che in poco più di 30 minuti mi porterà nel secondo posto più visitato di tutti gli Stati Uniti. Per alcuni un inutile trionfo del kitsch, per altri il tempio laico più importante del XX Secolo.

Il buio melodramma di Graceland

«Se non sei un fan di Elvis nessuna spiegazione è possibile». Il motto coniato da George Klein, amico di lunga data del cantante, appare in uno dei tanti cartelloni che costeggiano lo squallido Elvis Presley Boulevard, l’anonima strada dominata da fast food, stazioni di benzina e chain hotel che ogni anno conduce centinaia di migliaia di fan in pellegrinaggio a Graceland. Originariamente una ‘colonial home’, prima che gli stravaganti gusti estetici del cantante di Tupelo trasformarono la villa, acquistata nel 1957 per una cifra poco superiore ai 100mila dollari, in un manifesto del kitsch post-moderno. E in seguito nel luogo principe delle sue ossessioni, dove non a caso finì imprigionato nel suo ultimo periodo di vita, stanco, grasso, irriconoscibile, rovinato dalle pillole, dallo junk food e dai sogni di eterna grandezza.

Dal 1982, data in cui Graceland è stata aperta al pubblico, il pellegrinaggio dei discepoli si è fatto via via più intenso, invadente, morboso. Un flusso incessante di persone di ogni età che tocca l’apice in estate, quando va in scena l’Elvis Week, una settimana di festeggiamenti per celebrare la vita e la carriera di Presley che culminano con la veglia commemorativa. Lo scorso anno furono più di 70mila le persone in fila davanti ai cancelli della villa, esattamente come prima di un concerto. Alcuni portano dei fiori, altri tengono in mano candele accese, altri ancora solo strazianti lettere d’amore.

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Graceland è composta da ventotto stanze ma tutta l’ala superiore, compresa la camera da letto di Elvis e il bagno dove fu trovato morto, è da sempre chiusa al pubblico e ai media. E questo non fa che alimentare leggende. Una delle quali racconta che perfino all’ex presidente Bill Clinton sia stato negato l’accesso. A dispetto delle dimensioni, le stanze da visitare sono dunque solo sette, in ogni caso sufficienti per farsi un’idea della surreale normalità del luogo: si va dalla zona salone con i tre televisori sempre accesi, un’abitudine presa in prestito dall’ex presidente Lyndon Johnson, abituato a guardare i notiziari contemporaneamente su 3 diverse tv, la sala da biliardo, con le sue pareti tappezzate da 320 metri di stoffa multicolore, e la celeberrima Jungle room, probabilmente il momento più alto dello stile Presley: mobili a dir poco stravaganti, piante esotiche, pavimenti e soffitto ricoperti da un viscido manto erboso, divani di finta pelliccia stile funky anni Settanta e addirittura una cascata interna che scorre lungo la parete, eseguita su ordinazione nel 1974.

Ma è il finale del tour ad assumere toni melodrammatici, con la silenziosa via crucis del popolo dei fedeli che si reca a rendere omaggio alla lapide di Elvis, situata all’interno di un «Giardino della meditazione» talmente perfetto da sembrare finto. «Non ho pianto al funerale di Elvis e non mi manca. E’ inutile perdere tempo pensando a chi non c’è più», ha detto una volta Thomas Parker, per oltre vent’anni lo spietato manager del cantante, colui che ha rivoluzionato le regole dell’industria dell’intrattenimento trasformando una piccola star regionale in un immenso fenomeno planetario. Eppure il business plan messo in piedi da «The Colonel» sembra non essere cambiato, nonostante entrambi abbiano raggiunto miglior vita. E quello che una volta veniva venduto a ogni concerto come un souvenir, oggi ha le sembianze di una preziosa reliquia da acquistare prima dell’uscita. Solo in seguito ci si sente liberi di lasciare Graceland.

Capito a Beale Street, una delle strade simbolo della musica americana, in una tiepida serata d’autunno, e la prima sensazione è un mix incontrollato di spaesamento e delusione. Mi avevano messo in guardia sull’eccessiva commercializzazione della via ma non potevo immaginare che il paradiso della «black community» che un tempo faceva impallidire Harlem per la sua vivacità fosse ridotta ad un ammasso di turisti con il boccale di birra in mano che ciondolano da un locale all’altro come al luna park. Superando le transenne della via che segnano l’inizio del tratto pedonale, ci si trova di fronte un tripudio di luci al neon da far invidia a Las Vegas e negozi di paccottiglia varia ai lati della strada che potresti trovare ad Atene sulla strada per il Partenone.

«Elvis lives»

Dai numerosi locali esce un rumore assordante che si fa fatica a declinare in musica. Scopro con disappunto che il B. B. King club è momentaneamente chiuso per un incendio e allora proseguo lungo Beale Street per un giro perlustrativo, fino a quando non vengo fermato da un gruppo di tedeschi non più giovanissimi che chiedono solo di ascoltare Elvis. Cerco di farmi coinvolgere dalla loro euforia ed insieme varchiamo la soglia del «Jerry Lee Lewis», un nuovo locale dove, si legge su una lavagnetta appesa all’entrata, si possono gustare nientemeno che le polpette great balls of fire. Sul palco un attempato giovanotto, sudato, molto in carne e con un simpatico parrucchino di almeno una taglia superiore ancheggia faticosamente cantando Johnny B. Goode, con risultati poco lusinghieri. Neanche il tempo di accomodarmi e sono di nuovo in strada, proprio nel momento in cui una rumorosa pattuglia di motociclisti fa il suo ingresso trionfale in Beale Street. Sfortuna vuole che sia mercoledì, giorno in cui, mi spiegano, i biker scendono qui in parata come se si recassero in missione per conto di Dio.

È tempo di andare, penso, ma non prima di aver fatto un’ultima sosta al 138 di Beale, al Blues City Café, dove si vantano di smerciare le migliori costine di maiale di tutta la città. Il locale è strapieno di clienti, la maggior parte dei quali con lo sguardo inchiodato ai megaschermi che trasmettono una partita di football. Entro e mi accomodo nell’unico strapuntino rimasto libero, all’angolo del bancone. Ordino «Juicy Pork ribes with our secret seasonig» e chiedo cortesemente ad Alicia, la ragazza che prende le ordinazioni, la password wifi. Lei mi guarda complice, sorride e mormora a bassa voce: «elvislives». Elvis vive. Anche questa è Memphis.

(1 – continua)