Nome impegnativo: nata schiava e riuscita a fuggire, Harriet Tubman fu responsabile di una serie di operazioni che appoggiandosi alla rete abolizionista nota come Underground Railroad portarono alla liberazione di centinaia di schiavi; aiutò John Brown a preparare l’attacco all’arsenale di Harpers Ferry; e dopo la guerra civile lottò per il voto alle donne. Harriet Tubman è il nome che hanno scelto il chitarrista Brandon Ross, il bassista Melvin Gibbs e il batterista JT Lewis, tutti e tre afroamericani, quando nell’ultimo scorcio dei novanta hanno deciso di solidarizzare in un trio che funzionasse da loro «underground railroad» per emanciparsi dal lavoro nelle piantagioni dell’industria della musica.

Non che tutti i padroni che hanno provato siano stati – per la verità – dei più truci: Ross, Gibbs e Lewis possono vantare diverse delle esperienze musicali più corroboranti degli ultimi decenni. Gibbs è un veterano del free-funk, che ha militato accanto a Joe Bowie, Ronald Shannon Jackson, James Blood Ulmer, Vernon Reid; ha lavorato con gente come Zorn, Veloso e nella Rollins Band; è stato uno dei protagonisti della Black Rock Coalition. Ross e Lewis – tanto per dire – si sono trovati assieme tanto nei sublimi assortimenti di Kip Hanrahan che nel gruppo Make a Move di Henry Threadgill, e – sempre per dire – Ross è stato fra l’altro con i Lounge Lizards, e Lewis con Defunkt e Material. Ma non c’è come non dover obbedire a nessuno, e poter scegliere con la massima libertà la direzione da prendere. In ogni momento, anche quando si è sul palco e – come si è visto in due set al Blue Note – si può decidere dove portare la musica in tempo reale e in un interplay egualitario.

Anche la combinazione adesso con un personaggio come Cassandra Wilson non nuoce a questo clima: intanto perché l’accoppiata ha tutta l’aria di essere non Harriet Tubman al servizio della cantante, ma piuttosto lei ospite di riguardo del trio; e poi perché certo il tour è appena iniziato, la cosa ha per il momento la fisionomia del semilavorato (in vista c’è però un disco), ma tutto sommato il clima di spontaneità e di non precisa definizione aiuta Cassandra, che appare rilassata ma anche un po’ approssimativa, interessante ma mai veramente profonda.

I tre strumentisti iniziano morbidi, un po’ sognanti, con un Ross che dalla tavolozza della sua chitarra elettrica può prendere anche delle inclinazioni santaniane. Poi, entrata Cassandra, un beatlesiano Tomorrow Never Knows, in una lettura eterea, rallentata, onirica. Imbracciata la chitarra elettrica, la Wilson scandisce e asciuga un inno afroamericano, I’ll Overcome Someday. Quindi blues e rock blues, fra cui Black Sun, titolo anche del progetto, per poi aprire il secondo set con Strange Fruit. Gibbs suona spesso per melodie e accordi, e il collante ritmico, con verve, è soprattutto Lewis. Se in Cassandra c’è un deficit di concentrazione Ross spicca invece al banjo con grande intensità poetica.
È lui (con un’antica confidenza con la Wilson) che salva un O’ sole mio un po’ squinternato in cui si azzarda Cassandra (che l’ha inserito nel suo ultimo album): quando lei finisce di cantare, entra col banjo con un assolo crudo e spiritato. Già, gli spiriti. Gibbs parla degli antenati e fa riferimento appunto al banjo.

Lewis ricorda la nonna, che quando ragazzino suonava a casa con gli amici a tratti faceva dei gesti di approvazione: «allora non capivo, ma lei era di una generazione ancora legata ai nostri antenati, e sentiva la loro presenza: averli dentro la nostra musica è quello che cerchiamo di fare». Con la sua vocalità, che faceva tesoro di Abbey Lincoln, Nina Simone, Betty Carter ma anche di Joni Mitchell, Cassandra Wilson è stata una personalità prominente negli ottanta col collettivo nero MBase, e ha poi raggiunto un successo assai più vasto, ma negli ultimi anni la sua carriera non ha toccato punte particolarmente gloriose: ricollegarsi con gli antenati non potrà che farle bene.