Con la morte di Valentino Parlato la sinistra perde un compagno esemplare, un intellettuale organico perché critico, un militante instancabile, l’inventore di uno strumento di elaborazione culturale e di informazione meditata unico per rigore ed efficacia, il manifesto. Era la sua creatura, fu la sua ragione di vita. Si immedesimò in tutte le esigenze di questo particolare quotidiano, in tutte le sue pieghe, lo esaltava l’assoluta indipendenza, l’anomia.

Lo diresse più volte, lo sostenne, lo difese sempre.

Era per lui il modo di svolgere la sua militanza, quella di un comunista che ebbe il torto di aver ragione troppo presto e con troppo pochi anche se eccellenti compagni.

Dietro la maschera dello scetticismo, dell’ironia, dell’antiretorica che aveva assunto, Valentino nascondeva un credente tenace nei valori che lo avevano convinto da ragazzo, un dissolutore acuto dell’ideologia del capitale, un ricercatore instancabile e profondo dei mezzi adeguati per riconfermare e sviluppare le ragioni del comunismo.

Con Valentino io perdo uno dei pochissimi amici, dei pochissimi compagni con cui non ho litigato mai. E non perché sono stato sempre d’accordo con lui o non ci fossero occasioni per litigare o perché uno di noi due si persuadesse delle ragioni dell’altro. È accaduto perché Valentino, con me, non voleva che si protraesse il litigio. Ne sfumava i termini o diceva di volerci riflettere per non parlarne più.

La sua morte uccide un’amicizia autenticamente fraterna. Che mi ha gratificato tanto, mi ha onorato molto.