Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio se n’è andata Susi Pietri. Ci rimangono i libri che ha scritto, dai quali emergerà in tutta la sua grandezza il profilo della studiosa rigorosissima, originale, generosa ed elegante alla quale – per carattere e convinzione – non ha mai preteso di far corrispondere il giusto riconoscimento.
La deludeva, semmai, la mancanza di riconoscenza. Del resto, intorno alla sua impareggiabile padronanza dell’opera di Balzac, ha sempre fatto gravitare il tema prediletto del dono – come si legge per esempio in La Vénus en flammes, o in Le don de l’envers (Mimesis France) – che insieme alla figura degli scrittori-lettori doveva formare l’orizzonte in cui comprendere e custodire, attraverso la letteratura, la fragilità della nostre vite.
Susi Pietri che tira una boccata di fumo, che sorride e accarezza il volto di chi ha di fronte: per chiunque l’abbia conosciuta è difficile non cogliere in questa sua classica sequenza di gesti lo stesso atteggiamento che le consentiva di entrare in contatto con il furore dei giganti, gli scrittori-lettori che nel rapporto con la grande letteratura si erano giocati tutto, e di cui ha parlato così bene in L’opera inaugurale (Mimesis) , o in La terra promessa del racconto (Monte Università Parma).
Sarà quindi indispensabile che a rendere conto degli straordinari esiti del suo lavoro sia la critica, ma non lo è di meno stabilire che le sorprendenti qualità della comparatista, della saggista e della traduttrice, prorompevano sempre da una delicatissima tensione morale.
Henry James o Robert Louis Stevenson che leggono Balzac, in qualche misura, le dovevano risultare simili ai due «cagnuzzini» che lei e Andrea Borsari, un’estate, trovarono abbandonati durante le loro vacanze in Sardegna, direi nei pressi di una cabina telefonica, e portarono a casa, a Modena, dove li avrebbero accuditi per anni. Cani selvatici, non esattamente mansueti, ma proprio per questo alle prese con un’ostinazione spregiudicata e vulnerabile che li rendeva famigliari. Credo sia lì, tra la riottosità e la drammatica dolcezza della vita che vada cercato il meraviglioso talento di Susi, tenerissimo e guerriero, proprio come la risata travolgente e prossima alle lacrime che di tanto in tanto le illuminava lo sguardo.
Per il resto era sopratutto lavoro, lavoro e lavoro: dagli anni della ricerca a Parigi, che avrebbe impressionato un maestro così poco incline alle celebrazioni come Mario Lavagetto, fino a quelli degli incarichi a scuola, dove una delle più raffinate francesiste non solo d’Italia sapeva farsi adorare anche dagli studenti più impegnativi, che poi continuavano a fermarla e ad abbracciarla per strada. D’altronde, non ha mai smesso di divertirla quanto lo stesso Balzac fosse un «pasticcione», è vero, ma capace di rinchiudersi per giorni e notti in una stanza per uscirne con il manoscritto che ancora una volta avrebbe tenuto alla larga i creditori. Sempre a Balzac sono dedicati i suoi ultimi libri, Miroirs concentriques ( Mimesis), e Il fronteggiatore, scritto con Antonio Moresco (Bompiani).
Bisogna lavorare come le formichine, diceva, riservandosi di immaginare un futuro in cui le sarebbe stato possibile «parlare meglio di tutto». Eppure di tutto parlava già e con una curiosità incalzante nelle rare occasioni di svago, ma concedendo sempre al suo interlocutore di giungere alle proprie conclusioni: allora tirava un’altra boccata di fumo, sorrideva e faceva una carezza. Perché oltre a Balzac – anzi, con Balzac, letto e pensato insieme – c’era sempre anche Kafka, l’esuberanza e lo svilimento, l’energia e l’impotenza, un fondo di fedeltà animale alle ragioni del vivente che pur rimanendo oscure, scriveva Susi Pietri, devono implicare «l’imperativo di raccontare questo silenzio, di misurarsi con il suo canto implacabile – e il pericolo, mortale, di interrompere il racconto».
Diceva sempre che un giorno ci saremmo ritirati tutti insieme su un’isola deserta nei mari del sud, allora sì che a quel silenzio avremmo potuto dare il senso delle nostre vite in comune, eccessive e pericolanti. Vite libere, finalmente, come la bellissima voce di una ragazza dalla chioma ribelle che mentre il vento scuote le vele dell’Hispanola e disperde le canzoni dei pirati, si arrampica sulla cima di un barile e grida: «Terra!».