Scrive Shakespeare da qualche parte che la poesia non è altro se non una verità detta con le parole della menzogna. Tre secoli dopo, un suo fedelissimo, Sigmund Freud, aggiunge che l’origine di qualunque menzogna rinvia a uno stato di insicurezza o di allerta e insomma al gesto di chi si sta difendendo dalla minaccia di qualcosa o qualcuno, quasi che la menzogna si liberasse in automatico alla presenza di un pericolo e alla stregua di un fumus persecutionis. La menzogna come verità paradossale, in sé sottaciuta o denegata, equivale alla bestemmia di chi si sente abbandonato da dio, in preda a forze troppo soverchianti e inesorabili per essere non solo controllate ma innanzitutto nominate per quello che esse sono, cioè le forze in cui convergono storia e natura così implacabilmente da assumere i sembianti della fatalità ovvero di un destino inderogabile. E tale, fosco e tetro al pari di un fondale che rifletta un eterno autunno dell’anima, è il decorso delle storie, chiuse nella imbastitura di racconti o di romanzi brevi, di uno dei più grandi scrittori americani del XX secolo, Bernard Malamud, autore, fra non molti altri libri, del Commesso e del Barile magico, di cui fu detto che era specialista nel tracciare parabole della claustrofobia e della frustrazione per il tramite di una scrittura che tendeva a renderle ancora più insignificanti e opache di quanto non sembrassero già ad occhio nudo.

Dopo la morte del padre
Che menzogna e verità siano i poli di una sola dinamica, Malamud è costretto a intenderlo da subito in famiglia e a riferirlo al legame che intercorre fra identità e alterità, sanità e follia. Cresciuto a Brooklyn in una couche di immigrati ucraini, piccoli commercianti ebrei che gli rammenteranno le figurine di Ben Shahn, a scuola parla male l’inglese storpiandone la morfologia e invertendone la scansione sintattica (ciò che residuerà sottilmente anche nelle sue pagine più alte e suggerirà all’amico Philip Roth la definizione di «malamudese» quale variante esotica dell’angloamericano corrente); ma essenziale, a titolo psicologico, è l’altra divaricazione del suo avvio: se il padre, un modesto negoziante, ha introiettato la normalità americana inseguendo il successo economico e mancandolo con drammatica regolarità, sua madre ha fallito all’origine inoltrandosi in una follia che, come fosse un contagio, presto spegnerà anche il fratello dello scrittore lasciandogliene un insanabile senso di colpa.

Dunque non è un caso, come attestano sia la corrispondenza pubblicata sia le rare dichiarazioni pubbliche, che il giovane Bernie abbia cominciato a scrivere redigendo in un taccuino l’elenco quotidiano delle proprie manchevolezze e delle reiterate umiliazioni in un contesto familiare indifferente prima che ostile: tanto meno è un caso, ricorderà Malamud insinuandovi una dichiarazione di poetica o una deduzione postdatata, che suo padre lo tacciasse di bluffer («imbroglione») ogni volta che lo vedeva smemorarsi nell’atto di scrivere. Pertanto la menzogna, l’arte del bluff, rappresenta il dato primordiale della sua scrittura, uguale a una manchevolezza, a un vuoto vergognoso, a una falsa partenza. Quasi che solo la parola vuota e manchevole, pronunciata nel senso di colpa, potesse davvero risplendere nel suo essere inerme. Questo è il tema del capolavoro di Malamud, The Assistant, tradotto in limpido italiano da Giancarlo Buzzi per Einaudi nel ’62 col titolo Il commesso (e poi come Il ragazzo di bottega, titolo forse più aderente ma meno pregnante, da Angela Demurtas nel Meridiano dei Romanzi e racconti. 1952-1966.

Scritto subito dopo la morte del padre, il romanzo ha una evidente filigrana autobiografica. Il luogo è un vicolo immaginabile tra Manhattan e Central Park, il tempo è indeterminato fra gli anni Trenta e Quaranta, lo spazio è un piccolo store di generi alimentari cui devolve la sua vita intera Morris Bober, un ebreo integerrimo ma sfortunato in affari che lì vive con Ida, moglie e madre apprensiva, e sua figlia Helen, una piccola Bovary che sogna il grande amore ma nel frattempo la sicurezza di una laurea.
Malamud li fissa nel presepe quotidiano e inalterabile, il suo sguardo ha il nitore di chi coglie l’essenza dei gesti più insignificanti dentro un’atmosfera in cui si avvertono la lezione di Cechov ma anche la buffa tenerezza della slapstick comedy e di Charlie Chaplin, quello specialmente di Luci della città che lo scrittore ha più volte definito il film della sua vita.

Caligine, pioggia, una neve che pare perpetua, ribadiscono per allegoria un ambiente di miseria e di progressiva spoliazione. È in quel glaciale microcosmo che piomba l’italiano Frank Alpine, qualcuno che sta tra l’alieno e il giullare di dio, le cui azioni realizzano, in un’unica fisionomia, la dialettica stessa di verità e menzogna: si spaccia per colui che non è, vive di bugie ripetute e per così dire normalizzate, inventa il suo passato, rapina Morris senza farsi riconoscere ma poi si offre gratuitamente come commesso; in negozio lo deruba ma di nuovo si pente e vorrebbe risarcirlo proprio nel momento in cui Morris, già malato, lo scopre e lo caccia; non bastasse, Frank si innamora di Helen ma la prende con violenza concitata e la perde.

In effetti, se Morris è il capro espiatorio di una vita che altro non conosce se non l’onestà e la bontà, la costante menzogna di Frank, la continua metamorfosi dove si rende impercettibile ai suoi occhi la nozione medesima di verità, è la risposta alla via americana all’esistenza che Malamud ha sempre identificato nello struggle for life, il darwinismo sociale. Ogni volta la menzogna di Frank è ambivalente perché decostruisce (rimuove) una parte di sé per costruirne (simularne) un’altra che sia all’altezza del presente. Mentire, per lui, è tentare di farcela oppure è un modo di reagire alla normalità del fallimento e perciò mentire significa patire all’estremo, senza requie, il senso di colpa: «La sua maledetta esistenza l’aveva spinto in tutte le direzioni senza condurlo da nessuna parte. Era in balia di ogni soffio di vento, non possedeva nulla. Non poteva nemmeno dire di aver tratto un’esperienza dagli anni che aveva vissuto. Chi ha un’esperienza, sa almeno quando cominciare e a che punto smettere: ma tutto quello che lui sapeva era come straziarsi di più. Il suo io, al quale dentro di sé aveva attribuito tanto valore, non valeva più di una puzzolente carogna di topo. Pensò di uccidersi, ma proprio in quel momento ebbe un’intuizione terribile: che per tutto quel tempo non aveva agito secondo natura, che in realtà era un individuo di terribile moralità».

Quando muore un ebreo
Il romanzo pare chiudersi con un colpo di scena che tale non è, perché respinto da Ida e da Helen, bandito dal negozio, Frank vi ritorna mutamente e stavolta per sempre nel solo modo in cui la sua menzogna tanto ribadita può riscattarsi nell’altro da sé e cioè la verità incarnata quale sua parte viva e occulta. Infatti Frank alla morte di Morris lo sostituisce, ne accoglie il destino e diviene a sua volta un ebreo. Ormai la sua menzogna corrisponde ad una verità definitiva, perché vivrà in silenzio la stenta vita del negozio da testimone e da erede. Infine, nel rito funebre di Morris, le parole del rabbino potrebbero essere riferite proprio a lui: «Quando un ebreo muore, chi si preoccupa di sapere se è veramente un ebreo? È un ebreo, non ci chiediamo altro. Ma ci sono molti modi di essere ebrei. Patì, sopportò, ma con speranza. Chiedeva poco per sé, non chiedeva niente, ma voleva per la sua diletta figliola un’esistenza migliore di quella che lui aveva avuta. Per questo era un ebreo. Cosa chiede di più il nostro dolce Signore al suo povero popolo?».

Dalle carte della figlia
In un libro ricco di documenti e di testimonianze, My Father is a Book. A memoir of Bernard Malamud (Houghton Mifflin Company 2006), Janna Malamud Smith, figlia dello scrittore, rivela con struggimento il fatto che anche nella segreta esistenza di suo padre avesse a lungo fermentato una quota ineluttabile di menzogna, specie nell’ordine degli affetti e degli amori. Ci suggerisce che il vero portavoce di Malamud, nel Commesso, è proprio Frank Alpine, l’italiano di ambigui natali e di dubbia reputazione, e ci ricorda ciò che il vecchio Bernie amava ripetere: è ebreo qualunque uomo patisca fallimento e umiliazione.