Un malessere profondo scorre nelle vene della nostra società. Un mix di rassegnazione e rancore, sparso nei diversi territori geografici e sociali, che esplode ad ondate, si esprime con modalità democratiche – dal voto alla protesta.

Passa per gli insulti sui social, arriva alla violenza – individuale e di gruppo – sfiora e oltrepassa i limiti della tolleranza e della convivenza civile.

Un fenomeno-specchio della nuova fase di globalizzazione planetaria e dei sentimenti che essa genera: soli, ma sempre iperconnessi; col mondo racchiuso nel palmo di una mano ma con la paura del vicino; sgomenti e senza una visione di futuro nella quale collocare la propria esistenza. Quale abisso tra la portata di questi problemi e le ricette che la politica oggi è in grado di offrire!

Eppure questo malessere non è nuovo, viene da una lunga incubazione.

Venticinque anni di minore crescita rispetto ai principali paesi vicini, di politiche che prelevano dai cittadini più di quanto restituiscono con i servizi, fatte in nome degli interessi da pagare, ma che, ciò malgrado, vedono il debito aumentare inesorabilmente. Per sempre prigionieri delle politiche del passato.

La rassegnazione si spiega così. Il rancore anche con altro.

Dentro questa società bloccata, ceti professionali e manageriali hanno visto crescere a dismisura redditi e ricchezze, mentre ceti medi e lavoratori sono precipitati nella scala sociale e masse di giovani si trovano impantanati nelle sabbie mobili della precarietà.

Una lunga stagnazione, ma non per tutti, con dinamiche interne di forte divaricazione sociale. Con modelli di vita e di successo ostentati che diffondono invidia sociale. Un mercato di illusioni seguite da delusioni socialmente devastante. Così si può anche galleggiare nella rassegnazione, ma restiamo seduti su una polveriera.

Di fronte alla dimensione di questi problemi, la ricetta offerta dalla politica è ancora e sempre la crescita. E, in suo nome, la prosecuzione delle politiche fatte finora.

Certo, un punto di Pil equivale a 17 miliardi. Ma oggi l’1% appare un obiettivo irraggiungibile e, solo per pagare gli interessi sul debito, servirebbero non uno ma quattro punti.

E allora per quanti anni ancora si pensa di poter proporre ancora le vecchie politiche? Ci pensiamo al fatto che il rancore da esse generato ha spianato la strada al populismo? Che la politica è diventata solo una corsa per accaparrarsi le briciole che la bassa crescita consente? E che questo trasforma i partiti in dispensatori di benefici a microgruppi sociali ed economici che bussano alle loro porte frantumando in mille rivoli le poche risorse e rinunciando a progetti comuni e di respiro? Che in nome del nuovo e del cambiamento rischiamo di ritrovarci ai tempi della Dc, ma senza le risorse di quei tempi? Insomma non sarebbe l’ora di dirci la cruda verità e cioè che la sola crescita non può essere la soluzione? Che i problemi che abbiamo non dipendono solo dalla bassa crescita, ma dal tipo di crescita e, soprattutto, da come sono distribuiti i suoi frutti in termini di redditi e di ricchezze accumulate?

Ecco il tema che dovrebbe qualificare la campagna elettorale europea e quella della sinistra in particolare. Assumere la crescita come solo obiettivo da perseguire è, oltre che sbagliato, suicida per la sinistra. Significa, infatti, collocarsi in maniera subordinata rispetto al modello di sviluppo in atto e rinunciare ad una funzione specifica di rappresentanza degli interessi di una parte della società ed in particolare di quella più fragile. Questo non fa bene né alla sinistra né alla democrazia.

Oggi c’è bisogno di un mix di politiche, di sviluppo – crescita alternativa – , ma anche di redistribuzione, di un contributo dei redditi e delle ricchezze più alti, per attivare investimenti produttivi e sociali.

Ormai economisti a tutti i livelli indicano in una politica fiscale redistributiva che agisca sui patrimoni e sulle trasmissioni ereditarie la soluzione.

Occorrono forze politiche che la perseguano. Occorre aprire una nuova fase di conflitto distributivo. I ceti popolari disagiati non possono prendersela solo con chi sta peggio di loro.

È compito della sinistra indicare arricchimenti e privilegi da contrastare. Il sindacato sta arrivando a porsi questo problema. Sta alla sinistra, nella sua autonomia, fare la sua parte.