Territorio dell’Africa occidentale, con 11 milioni di abitanti, la Repubblica di Guinea è salita di recente alle cronache per due eventi: l’epidemia di ebola e il flusso di migranti, che abbandonano il paese per raggiungere le nostre coste, seguendo perigliosi itinerari clandestini.

Ex colonia francese, la Guinea ha un passato doloroso e ha conosciuto, fra il 1958 e il 2009, una serie di dittature, sotto il dominio di Sékou Touré (eroe dell’indipendenza nazionale), Lansana Conté e Moussa Dadis Camara. Eletto democraticamente nel 2010 e riconfermato nel 2015, il presidente Alpha Condé è a capo del Rassemblement du Peuple de Guinée, un partito la cui base mantiene una valenza etnica (gruppo malinké), come avviene per ogni formazione politica, al di là dei discorsi di facciata.

Un quadro desolante

Se gli sforzi per sviluppare lo stato, sotto perfusione internazionale, sortiscono effetti, anche grazie alle risorse minerarie del sottosuolo (bauxite, ferro e oro), il quadro delle infrastrutture è desolante. La capitale Conakry soffoca sotto il fardello di quartieri informali privi di servizi; le vie cittadine sono invase da immondizie e fogne a cielo aperto. La circolazione viene resa difficoltosa da strade dissestate, assimilabili a un percorso a ostacoli, con posti di blocco, talvolta interpretati dai cittadini come pretesti per atti di taglieggiamento ai loro danni, ad opera di uomini e donne in divisa.

Un’ulteriore minaccia grava però oggi sul Paese: la radicalizzazione di frange dell’islam locale. Non sarebbe tanto un fenomeno endogeno, quanto la conseguenza della crisi che, dal vicino Mali, attraversa l’area. La Guinea è uno stato laico, sotto il profilo istituzionale, con una popolazione sunnita per l’85% (il resto degli abitanti aderisce al cristianesimo o all’animismo).

La religione musulmana ha un trascorso burrascoso, risalente al XVII secolo, in concomitanza all’arrivo nel Fouta-Djalon, cuore storico del paese, dei peul.

L’islam portato da questi pastori nomadi si afferma attraverso jihad che sfociano nella nascita di un regno teocratico (XVIII sec.) e forzano all’esilio le comunità non disposte alla conversione. Si struttura allora, e sino all’età coloniale, un sistema di caste, con al vertice quattro stirpi (Bah, Barry, Diallo e Sow), le stesse che continuano a gestire la società odierna. Esse si ripartiscono il potere politico e religioso, ma detengono pure le leve dell’economia.

Nel seno di una di loro, i Bah, è nominato l’imam della grande moschea di Labé, capoluogo del Fouta-Djalon (Moyenne-Guinée). L’attuale guida spirituale è il quarantenne El-Haji Thierno M. Badrou Bah, che abbiamo potuto incontrare. Questi riveste le cariche di segretario generale della Ligue Islamique Préfectorale e d’ispettore del Secrétariat des Affaires Religieuses; dirige inoltre la fondazione di famiglia e si pone come portavoce dell’islam sufi (a vocazione mistica), tipico della confraternita Tijaniyya.

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L’imam della Grande Mosquée di Labé con altri membri della famiglia Bah e notabili

Il suo percorso ben riflette il vissuto popolare della fede: «A differenza dei miei zii e fratelli, iscritti alla scuola francofona, sono stato destinato a un ruolo religioso sin da piccolo. Dapprima mi sono istruito presso mio padre e la dudal (scuola coranica, ndr) di Labé, poi, sono stato mandato all’università di Al-Azhar al Cairo. Ho ricevuto un’istruzione tradizionale – in lingua peul, ma principalmente in arabo – improntata alle dottrine teologiche», che non lascia spazio ad ambiti tecnici, scientifici o socio-umanistici (l’imam ha difficoltà a esprimersi in francese, l’idioma ufficiale della Guinea).

Di fronte alle sfide del presente, un simile approccio sembra, però, rivelarsi inadeguato, come riconosce lo stesso El-Haji Thierno: «Quando ho incontrato il presidente senegalese Macky Sall, ho discusso con lui sulla possibilità di riformare le scuole coraniche, affinché inseriscano discipline che spieghino agli allievi in cosa consistono il sufismo africano delle confraternite e gli insegnamenti delle madhhab (scuole giuridiche musulmane, ndr)», per superare una didattica acritica, solo incentrata sulla memorizzazione della parola sacra.

Si tratterebbe inoltre d’introdurre materie in grado di preparare i giovani a una professione, in quanto, per la sua ristrettezza, «il modello educativo tramandato da secoli subisce ormai la pressante concorrenza degli istituti franco-arabi», spuntati ovunque e finanziati con denaro proveniente dal Golfo (Arabia Saudita in testa).

Prediche veementi

Sovente di stampo wahabita, le scuole franco-arabe affiancano moschee che diffondono prediche veementi (chi non pratica la fede come loro l’intendono, perde la qualità di musulmano). El-Haji Thierno condanna tale posizione e, quale fautore di un islam tollerante, è stato invitato, nel settembre 2016, a Montréal, per discutere con ragazzi musulmani di origine immigrata sulle conseguenze della radicalizzazione violenta, insidia, questa, cui si sente particolarmente sensibile, in quanto ne è vittima parte della gioventù guineana.

Certo può apparire strano che il sufismo si opponga al discorso jihadista, quando – in epoche lontane – ha imposto lui stesso la credenza sunnita ricorrendo alla guerra, ma le contraddizioni (come le svolte clamorose) non sono rare nell’universo religioso.

L’analisi delle faglie dell’islam preoccupa anche gli intellettuali, e ce l’ha dimostrato una tavola rotonda tenuta nel novembre 2016 all’università avente sede a Pita, dove i docenti hanno sottolineato come siano le carenze dell’insegnamento coranico e il conservatorismo delle confraternite, che coltivano un sapere iniziatico destinato a rimane oscuro ai terzi, ad aprire il cammino ad altri messaggi, più egualitari, privi di distinzioni di casta e dal contenuto accessibile.

La pratica wahabita è invece semplice, seppure intransigente, la si porta addosso come un’etichetta: barbetta e calzoni corti per gli uomini, velo integrale nero per le donne, preghiera con le braccia incrociate (anziché allungate sui fianchi), rifiuto del culto dei santi e di qualsiasi tecnica di tipo magico-religioso (divinazione, talismani, sacrifici rituali), ma non del martirio, testimonianza estrema di dedizione a Dio.

Un’indagine, condotta fra il 2015 e il 2016 da sociologi coordinati da Alpha Amadou Bano Barry (università Sonfonia di Conakry), ha dimostrato che il passaggio (repentino o graduale) al radicalismo è la conseguenza di un insieme di fattori. Fra questi: l’esistenza di reti familiari o di pari già convertite; l’ambizione di ritrovare l’autenticità della fede; l’indottrinamento di teologi che hanno ricevuto borse di studio per i paesi arabi e sono rientrati col desiderio di purificare l’islam autoctono da ogni contaminazione sincretica.

Purtroppo, conclude la ricerca, le autorità ignorano quanto sta avvenendo, mentre sarebbe necessario un reinvestimento profondo dello stato, in termini di formazione, di crescita socioeconomica e di controllo sulle moschee, per prevenire la violenza che permea un paese incapace di dare una prospettiva valida alle nuove generazioni.