Il Sudan scivola verso una dittatura militare sempre più brutale e sanguinaria ma la popolazione non si arrende e prosegue le proteste mai cessate dal golpe del 25 ottobre. I comitati popolari e varie associazioni sudanesi hanno lanciato ieri appelli a intensificare manifestazioni e disobbedienza civile in risposta alla strage di lunedì in cui almeno sette dimostranti sono stati uccisi dalla polizia. I feriti sono stati un centinaio. Le forze di sicurezza hanno fatto fuoco contro migliaia di manifestanti a Khartoum, a Wad Madani e in varie regioni del Paese, portando a 71 il totale dei morti da quando la giunta militare ha preso il potere. Nessuno crede alle assicurazioni date dal generale Abdel Fattah al Burhan, sull’apertura di un’indagine sulle ultime uccisioni. Contro i militari è schierato il Partito Comunista del Sudan (PCS) che si è unito all’appello per nuove manifestazioni fino a quando «un governo civile democratico non sarà al potere». Il PCS chiede di sviluppare un programma politico unitario di fronte alle pressioni regionali, internazionali e dell’Onu per un compromesso con l’esercito.

L’inchiesta annunciata da al Burhan non è credibile se si tiene conto che le forze di sicurezza godono dell’immunità garantita dal decreto di emergenza emesso dai generali dopo il golpe. Non a caso le proteste pacifiche vengono regolarmente attaccate anche con lanciarazzi e mitra. Il Comitato dei medici del Sudan riferisce di manifestanti colpiti alla testa, torace e addome e dell’uso di munizioni che esplodono all’interno del corpo. E anche di raid di soldati e poliziotti negli ospedali in cui vengono portati i feriti nonchè di infermieri e medici picchiati se tentano di intervenire. Sono attaccate le redazioni dei media schierati contro il golpe ed è stata presa di mira la tv Al Jazeera. «Il popolo sudanese non affronta un governo arbitrario, sta lottando contro una banda criminale che uccide i giovani del Sudan a sangue freddo e il mondo intero resta a guardare», ha commentato con amarezza su Twitter Faisal Saleh, ex ministro dell’informazione e consigliere del premier dimissionario Abdallah Hamdok.

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I sudanesi temono che il pugno di ferro dei militari si faccia ancora più pesante nelle prossime settimane. Le forze armate ormai controllano tutto, grazie anche all’appoggio dei sostenitori, ancora numerosi, dell’ex presidente Omar al Bashir rimosso dalla sollevazione popolare del 2019. «Se il Sudan avrà una nuova e lunga dittatura militare non dipenderà solo dagli avvenimenti interni al paese – ci diceva ieri al telefono da Khartoum Lorenzo Scategni, un volontario italiano in Sudan da alcuni anni –, i sudanesi con i quali parlo e ho contatti dicono che questo è il momento in cui la comunità internazionale deve intervenire per chiedere il rispetto dei diritti umani, della democrazia e della volontà popolare». Per i sudanesi, ha aggiunto Scategni, «il passo indietro fatto dall’ex premier Abdallah Hamdok ha chiarito che non esistono le condizioni per portare a termine la transizione democratica sotto i militari».

Proseguono i contatti internazionali per trovare una soluzione politica al colpo di stato. Difficilmente daranno risultati in linea con le aspettative della popolazione sudanese. L’inviato speciale statunitense per il Corno d’Africa David Satterfield è atteso a Khartoum questa settimana ma nella capitale regna lo scetticismo. Al di là dei proclami a favore della democrazia, Washington lavora per una nuova intesa tra civili e militari e affinché il potere resti almeno in parte nelle mani di generali che si proclamano amici degli Usa, dell’Occidente e sostenitori dell’Accordo di Abramo tra Sudan e Israele.