Una società in frantumi, uno scenario da dopoguerra. È quello che emerge dall’ultimo Rapporto Svimez 2013 sullo stato dell’economia del Mezzogiorno, per la verità non molto dissimile dal Rapporto Svimez dell’anno precedente e da quelli prodotti di recente dall’Istat e dal Censis sul Sud. Una metà del paese si è di fatto decomposta sotto i colpi della crisi, e l’altra metà si sta “meridionalizzando”. 

A inquietare non è solo il dato netto sulla contrazione del Pil delle regioni meridionali: -3,2% rispetto all’anno precedente; -10% dal 2007 al 2012. A inquietare è soprattutto la descrizione di un sistema inceppato, che genera emigrazione e povertà in pieno XXI secolo, alimentando le proprie debolezze. Crollano i consumi alimentari, crollano gli investimenti, galoppa la desertificazione industriale (con la moria della piccola e media impresa e la crisi di sistema dei grandi centri come Taranto). Il tasso di disoccupazione reale è al 28,4%, contro il 12% del Centro-Nord: come già rilevato dall’Istat, è un dato superiore (soprattutto se si considerano i giovani) a quello del 1977, allorquando prese corpo la percezione dell’allargamento della forbice tra garantiti e non-garantiti. Ora quella forbice non solo si ulteriormente allargata, si è arrugginita nel suo dipanarsi.

Tuttavia i dati più significativi sono quelli relativi alla popolazione. È in atto un vero e proprio smottamento demografico. Come in tutte le aree ai margini dell’Unione europea chi non lavora, chi non intravede un futuro, “vota con i piedi”. Se ne va da un’altra parte. In vent’anni sono emigrati di 2,7 milioni di persone: è come se fosse scomparsa una regione di media grandezza (l’intera Calabria ha solo due milioni di abitanti). C’è un’emigrazione intellettuale, col titolo di studio in tasca, e c’è una nuova emigrazione operaia, che magari preferisce le corriere di notte ai treni, il pendolarismo alla stanzialità, e che è comunque consistente, pur essendo meno visibile che in passato. È in atto, in buona sostanza, un processo di de-urbanizzazione delle città medio-grandi, che fa il paio con la loro crescente periferizzazione. In dieci anni Napoli ha perso quasi centomila abitanti, Palermo 23mila. Tutte le altre città con oltre centomila abitanti, tra i 10 e i 14 mila.

Ma c’è anche un cambiamento più profondo, su cui incide l’impoverimento. Nel 2012, al Sud, il numero dei morti ha superato quello dei nati. In epoca unitaria ciò era avvenuto solo in altri due anni: 1867 e 1918. Non sono proprio due anni presi a caso. Il primo è l’anno successivo alla fine della sanguinosissima guerra al brigantaggio. Il secondo l’anno in cui si conclude l’ancora più sanguinosa Prima guerra mondiale, e che vede i cafoni che non erano morti a migliaia nelle trincee tornare a casa con il sogno di avere un pezzo di terra.

Se dovessimo associare quei due anni fatidici, e il periodo della storia meridionale di cui sono l’emblema, a due opere, si potrebbe dire che pochi anni prima del 1867 Pasquale Villari scrive le sue Lettere da Napoli, e che pochi anni prima del 1918 (la seconda edizione è però del 1919) Gaetano Salvemini scrive Il ministro della malavita. Due capisaldi del meridionalismo storico, in cui l’analisi del Sud (e del sistema politico che blocca la società meridionale) diviene analisi e critica dell’Italia intera.

Di fronte alla desertificazione del 2012-13, e ai rapporti come quello dello Svimez, che fine ha fatto il meridionalismo? Di fronte alla constatazione del disastro, dove è l’indagine critica che mira a individuare le cause e a tracciare una linea politica per ribaltare lo stato di cose presenti? Che ne è, non solo di Villari e Salvemini, ma anche di Gramsci, Dorso, Rossi-Doria eccetera eccetera?

E qui forse si può avanzare una mesta riflessione. Con la fine della Prima Repubblica si è buttato via il bambino con l’acqua sporca. Se da una parte, con la scomparsa della Cassa del Mezzogiorno, a causa degli effetti degenerativi che avevano insozzato la sua missione originaria, si è ridotto il ruolo dei “professionisti del meridionalismo”, altra faccia della medaglia dei “mediatori” tra centro e periferia meridionale, dall’altra si è tagliato di netto ogni rapporto con le migliori esperienze del meridionalismo novecentesco. Ne sono seguiti vent’anni di afasia in cui al collasso del Sud ha fatto seguito la rimozione del Sud dall’agenda della politica, con il risultato di lasciare il campo dell’indignazione (e solo quello) al revanscismo neo-borbonico. (Il sudismo, avrebbero detto i vecchi azionisti, è l’esatto contrario del meridionalismo. È il suo ribaltamento reazionario.)

Basti un esempio. Il Matteo Renzi che decide di dare la scalata alla segreteria del Pd, iniziando il tour da Bari, si dimentica di pronunciare la parola “Sud” per tutta la durata del suo intervento. Non lo ha fatto neanche una volta, eppure si trovava in una della capitali del Mezzogiorno ritratto dalla Svimez. Il Sud, con tutte le questioni che si porta appresso – deve aver pensato Renzi – è una cosa polverosa che rischia di appannare, col solo essere citato, l’avanzare del nuovo… A ogni modo, che l’abbia fatto per scelta o che se ne sia semplicemente dimenticato, è fin troppo facile ribadire a Renzi, e a una folta schiera di “nuovi” politici al suo fianco, che ciò che non nominano gli si sta allargando come una voragine sotto i piedi. 

E allora? Assodato lo iato tra la politica di questi anni e la realtà concreta del Sud, delle sue fasce sociali più deboli, delle sue città già sventrate, non resta che tornare a riflettere su quale sia, o posso essere oggi, lo spazio per un nuovo meridionalismo critico. Che parta dal Mezzogiorno per scandagliare la “gestione della crisi” in Italia e in Europa.