Il Sud è tornato a crescere, nel 2016 lo ha fatto perfino leggermente di più del resto del Paese, ma rimane la parte più povera e la più colpita dalla crisi. Senza un cambio di rotta deciso – specie in fatto di investimenti – rimarrà la zavorra d’Italia. Se l’occupazione è ripartita, è altrettanto vero che «non incide sulle emergenze sociali» e continua «un persistente aumento di povertà e disuguaglianze». E se fino a qualche anno fa il Sud era la culla d’Italia ormai la tendenza si è invertita: di figli se ne fanno pochi anche nel Mezzogiorno e si fugge sempre di più.

Lo certifica lo Svimez – l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – nel suo rapporto annuale. I numeri e le previsioni contenute sono in chiaro scuro, ma bastano al governo e al ministero inventato all’uopo dal premier Paolo Gentiloni per intestarsi il successo e promettere un attenzione crescente. Il ministro Claudio De Vincenti – il «prof» vicino alla sinistra Pd diventato improvvisamente renziano – con il suo stile compassato parla di «successo» ma divide il merito «con imprese, lavoratori e sindacati».

Dopo otto anni di crisi una certa crescita era inevitabile e i suoi contenuti sono comunque assai ridotti. Nel 2016 il prodotto interno lordo del Mezzogiorno è cresciuto dell’1%, più che nel Centro-Nord, dove è stato pari ad un più 0,8%. Il sorpasso durerà solo un anno però e ha ragioni tutt’altro che strutturali: il recupero del settore manifatturiero, cresciuto cumulativamente di oltre il 7% nel biennio 2015-2016, e del 2,2% nel 2016, la ripresa del settore edile (più 0,5% nel 2016), il positivo andamento dei servizi (più 0,8% nel 2016).

Per quest’anno e l’anno prossimo le cose torneranno come al solito: nel 2017 il Pil dovrebbe aumentare dell’1,1% al Sud e dell’1,4% nel Centro-Nord. Nel 2018 lo Svimez prevede un aumento del prodotto dello 0,9% nel Mezzogiorno e dell’1, 2% al Centro Nord.

Lo strumento per diminuire il divario fra Nord e Sud del Paese lo conoscono tutti ed è un segreto di Pulcinella: si chiamano investimenti pubblici, specie se oculati e trasparenti. E qui il quadro delineato dallo Svimez è a tinte assai fosche. «Terminata nel 2015 la fase di accelerazione della spesa pubblica legata alla chiusura della programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013, per scongiurare la restituzione delle risorse comunitarie, nel 2016 c’è stata una severa contrazione della spesa pubblica in conto capitale. Nell’anno ha toccato nel Sud il punto più basso della sua serie storica, appena 13 miliardi, pari allo 0,8 per cento del Pil». Insomma, altro che inversione.

Nella media del 2016 gli occupati aumentano rispetto al 2015 al Sud di 101 mila unità, pari ad un più 1,7%, ma restano comunque di circa 380 mila al di sotto del livello del 2008. L’aumento dei dipendenti a tempo indeterminato in termini relativi è più accentuato nel Mezzogiorno, «grazie al prolungamento della decontribuzione». Ma «l’incremento degli occupati anziani e del part time contribuisce a determinare una preoccupante ridefinizione della struttura e qualità dell’occupazione». La riduzione dell’orario di lavoro, «facendo crescere l’incidenza dei dipendenti a bassa retribuzione, deprime i redditi complessivi».

Nel 2016 circa 10 meridionali su 100 sono in condizione di povertà assoluta, contro poco più di 6 nel Centro-Nord. L’incidenza della povertà assoluta al Sud nel 2016 cresce, specie nelle periferie delle aree metropolitane. Il quadro delle regioni è variegato. Nel 2016 è stata la Campania a crescere di più (più 2,4%), la Puglia ha rallentato (più 0,7%) e la Sardegna è finalmente – buona ultima – uscita dalla recessione (0,6%).

Numeri che vengono però gelati quando si legge: «Se il Mezzogiorno proseguirà con gli attuali ritmi di crescita, recupererà i livelli pre-crisi nel 2028, 10 anni dopo il Centro-Nord».

Lo Svimez propone dunque di ripartire da una delle poche misure intelligenti contenute negli ultimi due decreti sul Mezzogiorno: le Zone economiche speciali (Zes) per le sole aree meridionali, soprattutto a ridosso dei porti; per ora sono limitate a Napoli, Salerno e Gioia Tauro. Ma senza un aumento deciso degli investimenti pubblici agganciare la ripresa e tornare ai livelli pre crisi sarà durissime.