Quando Ed Ruscha rappresentò alla Biennale di Venezia del 2005 gli Stati Uniti, il suo lavoro – una serie di immagini di magazzini commerciali di Los Angeles – si ispirò, nel titolo e nella sostanza, al The Course of Empire di Thomas Cole. Al grande pittore di paesaggio di origini britanniche, trasferitosi nel 1818 con la famiglia negli Stati Uniti, era stata dedicata una prima retrospettiva americana nel 1994, che lo aveva riscoperto come fondatore della scuola dell’Hudson River e come padre ispiratore di una generazione di artisti dediti alla rappresentazione della specificità dei paesaggi americani, di quella wilderness e di quella sconfinata grandezza che soltanto il Nuovo Mondo poteva possedere. I dipinti dei pittori della scuola dell’Hudson River, fra i quali, oltre a Cole, si devono ricordare Frederic Edwin Church, Worthington Whittredge e Albert Bierstadt, rappresentano per lo più paesaggi americani caratterizzati da un realismo estremamente dettagliato in cui il senso della natura viene però spesso idealizzato.
A cavallo fra America e Europa
Oggi, con la mostra dedicata a Thomas Cole dalla National Gallery di Londra (Thomas Cole Eden to Empire), visitabile fino al 7 ottobre, cui si affianca anche l’esposizione delle opere di Ruscha già presentate a Venezia, viene sottolineato con maggiore forza il lato cosmopolita e visionario del pittore. Cole fu artista indipendente e in gran parte autodidatta, la sua vicenda biografica si compie nella prima metà dell’Ottocento a cavallo fra gli Stati Uniti e l’Europa e la sua opera fu costantemente caratterizzata da un atteggiamento conservatore e preoccupato nei confronti di un paesaggio incontaminato e potente come quello americano, di fronte ai cambiamenti imposti dal progresso e dalla civiltà industriale.
L’idea alla base di The Course of the Empire, opera fondamentale per comprendere le ambizioni dell’artista, di cui si presentano anche gli studi e gli schizzi, è la decadenza che minaccia le grandi realizzazioni umane, in particolare quando si siano basate sulla conquista e sulla violenza nei confronti del paesaggio e delle popolazioni. Un ciclo narrativo di questa portata anche teorica, che si sviluppa in cinque tele concatenate fra di loro, oggi presso la New York Historical Society, venne immediatamente avvertito come un’opera di segno diverso rispetto alla produzione di paesaggi, sia americani che europei, fino ad allora eseguiti da Cole. James Fenimore Cooper, che ambientò la sua opera più famosa – L’ultimo dei Mohicani – nella natura incontaminata dell’America attraversata dalla guerra franco-indiana, si accorse del cambiamento alla base della concezione di questa imponente serie, giudicandola «l’opera del più alto genio che questo paese abbia mai generato», che innalzava il genere del paesaggio al livello della composizione di storie eroiche. Nei suoi viaggi in Inghilterra e in Italia, a partire dal 1829 fino al 1832, Cole andò maturando l’idea alla base di The Course of Empire, meditando sulle conseguenze della recente rivoluzione industriale inglese e sulle antichità in rovina che aveva potuto osservare a Roma e nel sud dell’Italia, testimonianze di una storia di ascesa, decadenza e caduta. In particolare la campagna romana punteggiata dai resti grandiosi degli acquedotti, l’interno del Colosseo in cui si poteva ammirare al meglio la grandezza degli ordini architettonici antichi ma anche il loro progressivo disfacimento, il confronto serrato fra natura e architettura sulla costa campana, costituirono per Cole una ricchezza di motivi che già nel 1832, al ritorno nel suo studio fiorentino, gli consentirono l’esecuzione di tele come l’Interno del Colosseo e l’Acquedotto nella campagna romana, ricche di quella vivacità luministica e quel dinamismo pittorico che contraddistinguono anche le opere dell’artista alle prese con gli scenari americani.
Tornato a New York nel corso del 1832, Cole si mise alla ricerca di un mecenate che si appassionasse all’idea della serie di paesaggi in cui ambientare il trascolorare delle sorti umane, ma la ricerca presso i suoi consueti collezionisti e estimatori non diede esiti immediatamente positivi. Robert Gilmor, suo amico e iniziale sostenitore, che lo apprezzava fin dai primi anni venti, preferiva infatti le scene di natura selvaggia e non si mostrò troppo convinto del progetto complessivo dell’opera. Alla fine di quell’anno Cole incontrò però un ricco commerciante che si era appena ritirato dagli affari; non certo raffinato, ma entusiasta di lasciare libero corso alla fantasia dell’artista. Si trattava di Luman Reed – che conosciamo ritratto in un affascinante dipinto di Asher B. Durand, oggi al Metropolitan Museum di New York –, anch’egli pittore della scuola dell’Hudson River e molto legato a Cole, con cui condivise una spedizione dedicata alla pittura dal vero nei monti Adirondacks che divenne fondamentale nella formazione pittorica dei due. Reed accettò il progetto di Cole per le cinque tele dallo Stato selvaggio, all’Arcadia, all’Apice dell’Impero, alla Distruzione e alla Desolazione.
Ritorno alla pace dello spirito
Al di là delle aspirazioni teoriche e degli ammonimenti morali che il ciclo voleva contenere, nel suo sviluppo fra il 1833 e il 1836, si può dire che rappresenti compiutamente anche il percorso stilistico e intellettuale di Cole. Per sua stessa ammissione, infatti, egli non solo voleva ricostruire gli avvicendamenti delle fortune umane osservate nel Vecchio Continente, in modo che servissero da ammonimento nel Nuovo, ma anche rendere omaggio alla pittura di paesaggio con cui l’artista si era confrontato in Europa. Ognuno dei soggetti prende a modello uno dei capisaldi, seicenteschi o contemporanei, di quella tradizione: Salvator Rosa, Claude Lorrain, John Martin, e gli ineludibili Turner e Constable. La apocalittica visione della Distruzione si placa nel paesaggio celeste e lunare della Desolazione, in cui le rovine della città imperiale dopo il disastro sembrano riportare lo spettatore alla pace dello spirito; alla catastrofe e alla violenza si sostituisce la meditazione sulla forza tranquilla della natura che riprende silenziosamente possesso dello scenario; l’erba sta già ricrescendo sulla colonna che svetta bianca in primo piano a sinistra, sullo sfondo di altri marmi in disfacimento. Si tratta di uno dei capolavori di Cole e della mostra, anche se il paesaggio è quieto e immaginario, lontano dalle architetture antiche osservate dal vero e dai paesaggi vasti e solitari intorno all’Hudson che lo consacrarono come uno dei creatori dell’identità del popolo americano.
L’Europa e l’America si confrontano e si rispecchiano quindi nei dipinti di Cole nei quali la tradizione del Vecchio Continente rappresenta un modello a cui fare riferimento, ma di fronte alla quale il giovane viaggiatore e studioso americano, come gli ingenui personaggi protagonisti dei romanzi di Hawthorne prima e James dopo, rischia costantemente di lasciarsi ingannare dalla decadenza morale che ne ha travolto i costumi.
L’attrazione e la sintonia per il mondo tempestoso e selvaggio della natura americana, riletto con le lenti del passato e dello studio, emerge nel percorso della mostra in tutta la sua prepotenza e il suo tormento, ma sono forse queste visioni di paesaggi attraversati dalla storia e finalmente placati a restituire la capacità di interpretazione della natura e della sua componente «sublime» e a fare di Cole un grande artista. Al di là della lettura che egli stesso dava della propria arte, scrivendo a Luman Reed: «I believe I’m best in the stormy and wild».