Sembrerà un paradosso, ma è saggezza politica: finché non fu in grado di realizzare i suoi progetti politici senza il contributo dei poteri periferici – sia feudali, che cittadini – fu il sovrano a sollecitare la partecipazione alla sua attività di governo delle componenti sociali più rilevanti. Privo di efficaci strumenti amministrativi, cercava il consenso di assemblee controllabili che ne avallassero le scelte senza esigere la condivisione di un potere realmente esercitato. Com’è naturale, però, le assemblee rifiutavano ruoli di supplenza del «consilium regni» e chiedevano una istituzionalizzazione della propria presenza politica.

La dialettica tra potere centrale e poteri periferici si configurò così come processo dinamico, da cui nasceva una complessa trama di rapporti tra forze diverse, che tenevano assieme il corpo centrale dello Stato e le sue articolazioni periferiche. Di fatto, i poteri periferici, che esprimevano interessi diversi tra loro, esercitavano un reciproco controllo e una funzione equilibratrice. Naturalmente, più il potere centrale contava su basi sociali autonome e potenti, più debole erano le assemblee e più arretrata la realtà politica. Se il sovrano poteva agevolmente sfruttare i contrasti interni ai poteri periferici – difficili relazioni tra città e contado, rapporti tesi tra feudatari e autonomie cittadine – la logica dal «divide et impera» causava una destabilizzante frammentazione politica.

A ben vedere, quindi, la “governabilità” non solo non era – e di fatto non è – figlia unica del rafforzamento del potere centrale, ma l’indebolimento delle autonomie periferiche creava squilibri che intralciavano il “buon governo”. Spesso, anzi, l’esagerata ricerca di “governabilità»” era ed è sintomo di una patologia del potere, che difende interessi particolari e minoritari, a scapito dei reali bisogni collettivi. Vitale, quindi, per la fisiologia della vita politica, era ed è l’equilibrio delicato tra i poteri periferici e quello centrale e la “governabilità” si fa “valore” e agevola il “buon governo” se la forza del potere nasce dal confronto con assemblee con una forte rappresentanza.

La storia delle assemblee dimostra che più esse sono rappresentative della complessa realtà sociale, più articolata è la base di consenso e più efficace l’azione di governo. E’ il moltiplicarsi dei ruoli di garanzia nel cursus honorum degli uomini di governo affiancati al Senato a fare grande quella Roma repubblicana, che l’Impero conduce alla rovina, allorché, ridotto il Senato a un ornamento, la forza delle legioni svanisce perché non si trova più chi difenda uno Stato che non lo rappresenta.

Con l’Età Moderna, quando la bilancia pende dalla parte di chi governa e le assemblee si riducono a salotti di “ambasciatori” di questa o quella entità politica autonoma, in cui non conta l’importanza dei problemi, ma il peso di chi difende un interesse, lo scontro coi popoli si fa spesso violento. Val la pena di ricordare a Renzi – ma anche l’Europa farebbe bene a riflettere – che quando il potere centrale pone al centro della vita politica la governabilità a scapito della rappresentanza e spaccia per modernizzazione l’autoritarismo, s’è aperta la via per la rivoluzione.

L’inglese Carlo I Stuart, travolto dalla «Gloriosa Rivoluzione», la questione della rappresentanza che spinge alla ribellione i coloni americani al grido di «no taxation without representation», sono modelli classici nelle storia della borghesia, Ed è sintomatico che l’animo degli americani non si infiamma, come spesso si crede, per l’eccesso di tassazione, ma per la richiesta ignorata di eleggere rappresentanti nel Parlamento di Londra.

Lungo sarebbe l’elenco delle rivoluzioni nate dalla rivendicazione di una reale partecipazione, ma anche Renzi saprà che fu la rivoluzione a sancire la superiorità del modello fondato sulla rappresentanza: così accadde negli Usa, così nella Francia dei sanculotti e persino nella Russia del 1917, dove l’inascoltata richiesta di convocare un’assemblea rappresentativa dell’intera società zarista, espressa dai rivoluzionari all’alba del Novecento, trovò risposta nei «Soviet», che rappresentanza ai ceti subalterni. Ragione non ultima della partecipazione popolare alla rivoluzione bolscevica.

Oggi sappiamo che più pesante è stato il pugno calato sull’equilibrio dei poteri, più violenta è risultata storicamente la mortificazione di diritti umani, civili, politici e sociali e più spazio s’è aperto per la rivoluzione che, nel delirio liberista, è diventata la grande assente della vicenda storica. E strano, ma significativo – e fa temere una violenta burrasca – il fatto che proprio la borghesia cancelli dall’orizzonte politico la via rivoluzionaria e pretenda di leggere la storia come fosse un traballante treppiedi privo di una gamba: conservatori e progressisti, senza ombra di rivoluzionari. Eppure spesso sono stati proprio questi ultimi a scrivere pagine decisive per la vicenda umana e nessuno dovrebbe saperlo meglio di quella borghesia che, giunta al potere per la via rivoluzionaria, l’ha poi conservato grazie ai Parlamenti. Quei Parlamenti che oggi, con colpevole miopia, sono sacrificati a governi autoritari che battono in breccia la geniale creatura di Montesquieu.

E’ vero, si può essere riformisti in mille modi, ma non sarà male chiederselo: quante rivoluzioni sono figlie legittime di riforme concepite per negare diritti? Quanti decisivi progressi hanno fatto giustizia con la forza di un’ingiustizia che non sentiva più le ragioni dei popoli?