È diffuso un malinteso che rischia di compromettere la comprensione di alcuni processi contemporanei e, soprattutto, la capacità di resistenza rispetto a essi: si tratta della errata collocazione di un rinascente sentimento sovranista in senso nazionalistico rispetto alle dinamiche della globalizzazione e del neoliberismo da cui essa è cagionata.

Frequentemente tale malinteso si origina proprio al centro della riflessione che, ripugnando il risveglio di un simile nazionalismo, si ritrova a dover preferire, come in un’alternativa rigida e priva di via d’uscita, le politiche neoliberiste cui tale nazionalismo afferma di volersi scagliare e i processi globalizzanti a esse connesse.

Si potrebbe perciò aggiungere a questo prima malinteso, un secondo malinteso, una sorta di corollario: l’incapacità di accedere a un sano internazionalismo che, sottraendosi alle secche del sovranismo nazionalista, non ricada nel sostegno alla globalizzazione come scenario unico e perciò, di per sé, buono.

Ed è forse chiarendo questa dicotomia tra internazionalismo e globalizzazione che conviene prendere le mosse; chiarendo, cioè, in maniera essenziale la fondamentale linea di distinzione tra queste due posture, la prima consistente in un’estensione oltre i limiti dello Stato sovrano degli spazi politici, l’altra consistente in un’estensione oltre quegli stessi confini delle dinamiche sociali e della circolazione di interessi spesso – se non sempre – a danno della capacità decisionale politica e giuridica.

Si può altrimenti dire che, insistendo entrambe su un ambiente più ampio rispetto al solo stato sovrano, i due processi si relazionano in una specie di proporzionalità inversa, tale che, paradossalmente, ai due poli contrapposti si trovano, da un lato, la capacità costruttiva in termini politici e, dall’altro, la difesa degli interessi entro dinamiche inintenzionali.

È proprio l’insistenza dei due processi su una scala che esorbita rispetto all’alveo dello Stato-nazione il punto di partenza da cui assumere la questione.

È infatti evidente che lo Stato-nazione, nato in una certa fase storica, ha avuto una funzione aggregante e, anzi, coinvolgente fasce di cittadinanza le quali, senza il sentimento nazionale, non avrebbero mai avvertito la possibilità di partecipare a un discorso politico.

Oggi, tuttavia, la dimensione nazionale è superata, in parte perché la si è saggiamente separata dal discorso statuale, rendendo porosi i confini del dibattito pubblico e politico in senso inclusivo, sia perché questioni transnazionali, internazionali, intranazionali ne minano la solidità, la rigida coincidenza tra Stato e nazione presente in origine.

L’internazionalismo disorienta l’intenzione di osservare le questioni politiche su una scala non solo nazionale, ma anche statuale, comportando l’allargamento della riflessione politica sempre con una postura costruttivista tipica del pensiero della sovranità, ma con un coinvolgimento ben più ampio nell’accordo che tale postura promuove.

Anche la globalizzazione, e in maniera ben più efficace rispetto all’internazionalismo grazie alla sua capacità espansiva quasi naturalistica, abbatte i confini dello Stato-nazione, decentrando su una matrice al contempo locale e globale la circolazione degli interessi economici.

Come interpretare, allora, il ritorno prepotente della questione nazionale?

La retorica nazionalistica si traveste da resistenza contro i processi globalizzanti, recuperando un sentimento nazionale al fine di difendere la capacità decisionale tipica dell’accordo politico interno allo Stato-nazione moderno.

Tanto quanto l’internazionalismo, anche il nazionalismo avverte il pericolo che il cittadino, immerso entro processi di promozione dei suoi interessi, rinunci o, peggio, sia privato della sua capacità politica.

Mentre l’internazionalismo aderisce alla realtà globale, interpretandone il problema nella proporzionalità inversa di cui già si è detto, ossia nella convinzione che la globalizzazione promette benessere e ricchezza al costo dei diritti e della partecipazione trasformando tutti in piccole aziende e in imprenditori di se stessi, il nazionalismo pretende un risveglio del sentimento nazionale come muro eretto contro la globalizzazione e il discorso neoliberista.

Ciò che, però, sfugge al discorso nazionalista e ciò che va messo al centro di un serio confronto con il nazionalismo è il fatto che questo risveglio del nazionalismo, al di là delle sue sembianze, non scardina il neoliberismo e il suo afflato globalizzante.

Ciò che deve diventare davvero chiaro è il funzionamento del neoliberismo, per troppo tempo confuso con un ritorno del laissez faire, ma in realtà rigido appello normativo agli Stati, al fine di promuovere la responsabilizzazione, l’atomizzazione, l’imprenditorialità, in seno alla vita di ogni cittadino, in tutte le sue dimensioni, anche quelle private e affettive.

Si tratta di un appello che richiama lo Stato come protagonista in prima linea, per forzare e far penetrare la matrice neoliberale nel diritto e nella vita: lo Stato non muore affatto nell’ambiente neoliberale, ma, anzi, diviene più forte, perdendo tuttavia la sua dimensione sovranitaria ed essendo funzionalizzato al compito assegnatogli dal globalismo neoliberale.

Un compito che il nazionalismo, proprio mentre si illude di resistervi, accetta e corrobora, incrementando le strutture statuali-nazionali che, tuttavia, sono completamente al servizio e funzionalizzate al discorso neoliberale.

A questo proposito, si può pensare alla dimensione più evidente dell’attivismo nazionalistico, cioè l’erezione di muri, fisici o culturali, all’apertura di campi che sono veri e propri lager, al fine di difendere gli interessi nazionali; un’iniziativa che, tutt’altro che antiglobalista, non fa altro che normalizzare il discorso reificante del neoliberismo, che trasforma le persone in costi e benefici, e unisce a esse le merci in un unico flusso omogeneo da controllare in maniera attenta a seconda delle esigenze del mercato globale, di cui il mercato nazionale è parte attiva.

Questo è il cardine attorno a cui far ruotare il malinteso per cui il nazionalismo e il sovranismo sarebbero parte di una crisi della globalizzazione neoliberista.

Non è vero, e credere così significa, anzi, collaborare all’illusione nazionalista per cui quello sarebbe un innovativo tentativo di resistenza alle dinamiche neoliberali a cui il povero, l’operaio, la classe media può aggregarsi.

Un’illusione che ha già avuto troppo successo, per esempio nella vittoria di Trump e perfino in Europa e in Italia.