L’’ordine esecutivo e il potenziale tentativo di bloccare le operazioni «americane» delle «cinesi» Tik Tok e WeChat da parte di Trump, pongono sul tavolo dell’attuale guerra fredda 2.0 tra Pechino e Washington più di un elemento da analizzare.

Ci sono i dati, intanto, ci sono le questioni legate alla sicurezza informatica, ci sono i miliardi prodotti dalle piattaforme (anche Tik Tok e WeChat lo sono) e c’è, più di tutto, l’emergere definitivo del concetto di «sovranità digitale». Nel 2017 a un convegno sul futuro di internet il presidente cinese Xi Jinping aveva parlato chiaro a questo proposito, ponendo come obiettivo della Cina quello di garantire nell’immediato futuro la sovranità digitale della rete.

Fino ad oggi siamo stati abituati a osservare fenomeni di difesa dei confini digitali da parte di Stati considerati a diverso titolo «autoritari». Pechino in questo senso ha fatto scuola: il suo Great Firewall che blocca contenuti sgraditi e la censura nei confronti di prodotti stranieri, da un lato ha permesso al Partito comunista di controllare l’informazione, dall’altro ha fatto sì che le proprie aziende potessero fiorire senza la presenza di big occidentali: Tik Tok ma soprattutto WeChat sono il risultato di questo sovranismo digitale voluto e reso possibile in Cina (non a caso la rivista Quartz, molto attenta al tema del confronto tecnologico tra Cina e Usa ha titolato un suo articolo «Un blocco americano di Tik Tok è perfettamente in linea con il sogno cinese della sovranità digitale»).

Su questo tracciato si sono mossi nel tempo altri Stati, come ad esempio la Russia, la Turchia, l’Iran. Alcune settimane fa, nel bel mezzo di uno dei confronti muscolari presso i confini contesi con la Cina, è stata l’India di Modi a bloccare l’utilizzo di decine di applicazioni e piattaforme cinesi (comprese Tik Tok e WeChat), segnando una svolta: per la prima volta un paese democratico, per quanto a tinte oscure quale è oggi l’India di Modi, seguiva l’operato della Cina. La decisione di ieri di Trump segna un «momento Tik Tok» nell’ambito del mondo digitale, indicando una strada possibile anche per le democrazie.

Sui motivi di Trump, razionali o dettati da meri calcoli elettorali, ci sarà tempo di indagare ma intanto una prima milestone è stata posta. Per quanto riguarda gli Usa, inoltre, esistono altri aspetti da indagare, legati a una mancanza di strategia «statale» sul ruolo delle piattaforme nell’ecosistema economico e politico. Non può sfuggire che quasi contemporaneamente agli anatemi contro le app cinesi, lo scorso 29 luglio gli amministratori delegati delle quattro big tech americane erano impegnati a rispondere a domande sulla loro posizione dominante nel mercato al Congresso Usa. Le piattaforme sono come Stati con un proprio Pil, proprie alleanze, visioni «imperiali» e sempre più spesso, in questo mondo che tende al sovranismo, hanno compreso come utilizzare il linguaggio della politica.

A questo proposito il più chiaro di tutti è stato Mark Zuckerberg di Facebook: di fronte alle spinte bipartisan a smembrare il suo impero ha ricordato che indebolire Facebook significa lasciare mano libera alla Cina, spauracchio – anch’esso – bipartisan. In questo senso si potrebbe allora leggere la volontà di bloccare WeChat, da sempre modello di business studiato da Zuckerberg: bloccare la piattaforma cinese significherebbe fare quanto la Cina ha fatto da sempre, ovvero favorire il mercato nazionale (in questo caso quello dei pagamenti elettronici). Per Tik Tok l’obiettivo di Trump rimane più nebuloso: provando a razionalizzare la decisione della Casa bianca, si dovrebbe allora seguire la pista dei Big Data. Con un eventuale blocco, Tik Tok, o almeno la sua parte cinese, non potrebbe più trasferire i dati americani in Cina, sempre che lo abbia mai fatto. Anche in questo caso Trump insegue la Cina: sia la legge sulla cybersecurity, sia la bozza di legge riguardo la gestione dei Big Data da parte di Pechino vanno in questa direzione, quella di non consentire ad aziende straniere di trasferire fuori dalla Cina i dati ottenuti al di là della Muraglia. Secondo uno studio di Technode compiuto sulla proposta di legge cinese, «entro il 2025 la somma di dati creati, collezionati o copiati in Cina aumenterà da 7,5 zettabytes (uno zettabyte equivale a circa 200 miliardi di Dvd) a 46,6 zettabytes, contando per il 27,8% dei dati di tutto il mondo. Nello stesso periodo i dati americani peseranno per il 17,5%». E i dati producono soldi.

Piattaforme, Big Data e sovranità digitale costituiranno i tre attori fondamentali del nostro prossimo futuro. Il nostro problema semmai è di adattamento: pensavamo che sarebbe stato l’Occidente a guidare un processo di razionalizzazione e ordine del capitalismo delle piattaforme e invece sta accadendo esattamente il contrario, con gli Stati occidentali a rincorrere la Cina. Solo che il modello cinese, secondo la stessa ammissione dei cinesi, è difficilmente replicabile: per questo il tentativo di guidare una sorta di «imitazione» non potrà che creare cortocircuiti di cui sarebbe bene avere coscienza, perché la benzina di questi sommovimenti apparentemente virtuali siamo noi, con i nostri dati.