«Ogni volta che lascio il mio paese divento subito irlandese. Ho bisogno del passaporto. Eppure non so bene cosa significhi, anzi, se addirittura significhi qualcosa. Sono piuttosto soddisfatto di essere irlandese, ma detesto essere “irlandese”. L’adoro e lo combatto. Ecco dove penso si possa trovare l’identità, nella lotta all’identità. O nella lotta all’identità imposta. Stavo scrivendo il mio nono romanzo quando mi sono reso conto che era proprio quello che stavo facendo: lottavo contro la mia identità, o contro quella che altri avevano cercato di impormi, lottavo contro l’ideale. Lottavo contro quello che altri si aspettavano che fossi e scrivevo con gioia quello che altri consideravano non irlandese, o meno irlandese o più dublinese che irlandese. Alle pagine dei miei romanzi ho imposto la mia personale definizione di ciò che significa essere irlandesi. E l’ho fatto anche perché ne avevo bisogno».

Un irlandese riluttante, è così che Roddy Doyle si è presentato al Festival Letterature che si è aperto martedi a Roma. Eppure, nessuno come questo ex insegnante di liceo che dal 1993 a oggi ha sfornato una decina di romanzi straordinari, fino a diventare uno dei protagonisti della narrativa contemporanea, ha saputo cogliere e raccontare miti e inquietudini della terra d’Irlanda. Cresciuto nel quartiere popolare di Kilbarrack, nel nord di Dublino, a parte un breve periodo di studio a Londra, Doyle va fiero di non aver mai vissuto a più di 3 km da dove è nato.

La memoria della Dublino operaia, i miti infranti della working class, ma anche lo slang bizzarro di chi vi abita e il modo scanzonato di affrontare le avversità della vita, proprio di chi ha conosciuto più ombre che luci, tornano più volte nei libri di Doyle che, allo stesso tempo, affronta senza alcun timore reverenziale, e soprattutto con un’ironia irresistibile, anche gli elementi fondativi dell’identità irlandese: la fede cattolica e il ruolo della Chiesa, la lotta per l’indipendenza nazionale prima e la lotta armata dell’Ira poi, la povertà endemica e il pallido orizzonte di un boom economico rapidamente tramontato.

Da «I Commitmens», portato sul grande schermo da Alan Parker, a «Paddy Clarke ah ah ah!», da «The Snapper», di cui Stephen Frears ha diretto la versione cinematografica, a «The Van», passando per la trilogia che attraversa gli anni dell’insurrezione del 1916 e della grande depressione e che ha come protagonista Henry Smart, per non citare che alcuni dei suoi titoli più fortunati, lo scrittore irlandese si erge a testimone, ma senza prendersi mai troppo sul serio, dei tanti cambiamenti vissuti da un paese che si vorrebbe, al contrario, immutabile e nel solco della tradizione.

Fedele a questa sua indole dissacrante ma sempre profondamente empatica quanto le sorti degli «ultimi», l’ultimo romanzo di Roddy Doyle, La musica è cambiata (Guanda, pp. 395, euro 18,50), torna a proporci la figura di Jimmy Rabbitte che nei Commitments era il manager della soul band formata da un gruppo di ragazzi squattrinati che cercavano così di far fronte come potevano alla crisi economica. Invecchiato e gravemente ammalato, con una numerosa famiglia sulle spalle, stavolta Jimmy si imbarca in un’impresa altrettanto ardua: ritrovare – o inventare? – le canzoni che si suonavano in Irlanda nel 1932, quando si svolse il primo Congresso eucaristico del paese, di cui, nel 2012, anno in cui è ambientato il romanzo, si celebra una nuova edizione. Questo, mentre tutto intorno a lui, l’economia della «tigre celtica» sta andando in pezzi sotto i colpi della crisi internazionale.

Jimmy Rabbitte è tornato: l’Irlanda è messa così male che bisogna ricominciare a inventarsi qualunque cosa, pur di restare a galla?

Non abbandono mai i miei personaggi. Ho scritto dieci romanzi e sono sempre tornato a trovarli, anche a distanza di molti anni, per vedere che cosa era cambiato nelle loro vite. Però, è vero, ho pensato al ritorno di Jimmy perché ho associato la sua figura alla parola «recessione». A distanza di più di vent’anni, volevo capire come Jimmy, e ora anche la sua famiglia, avrebbero affrontato la situazione di una nuova crisi economica dopo quella con cui avevano dovuto fare i conti ai tempi de I Commitments. Volevo studiare le loro reazioni, le dinamiche che si sarebbero messe in moto. Volevo, insomma, capire cosa Jimmy avrebbe potuto inventarsi stavolta.

Nel libro, il riferimento agli avvenimenti del 1932 sembra rimandare anche ai segni che la povertà e la crisi lasciano, oggi come allora, sulle persone. Cosa la colpisce o la spaventa di più di quanto sta accadendo nel suo paese?

La cosa più dura da accettare, è il ritorno stesso della crisi economica che da noi non è una novità, anche se pensavamo di essercela lasciata alle spalle. Nel 1932 l’Irlanda era un paese poverissimo, con tanta gente che non aveva da mangiare e molti altri che erano costretti ad emigrare. Dieci anni dopo le cose non andavano meglio, e lo stesso si può dire anche per i decenni successivi. Solo nel 1962 la situazione è cominciata a cambiare, anche se per parlare davvero di diffusione del benessere dobbiamo aspettare almeno fino alla fine degli anni Ottanta. Poi, sono arrivate altre batoste, fino a quando, negli ultimi dieci anni è iniziato il cosiddetto miracolo economico della «tigre celtica». All’inizio, in molti non si aspettavano quasi quello sviluppo, ne erano stupiti, ci si sono abituati pian piano e poi, sul più bello, quando avevano fatto l’abitudine a stare meglio, è arrivata la nuova tegola della crisi internazionale. Per l’Irlanda è stato un vero shock. Pensavamo di avere chiuso per sempre con la miseria e invece davanti a noi si è aperto d’improvviso un precipizio e ci siamo finiti dentro con tutte le scarpe. La cosa più inquietante è che le persone della mia età lasceranno il paese in una condizione peggiore rispetto a quella in cui l’hanno trovato quando erano giovani.

Gran parte dei personaggi dei suoi romanzi vengono dalla «working class», si sente un po’ il loro portavoce?

In effetti, solo Paddy Clarke appartiene alla classe media. Ma non è stata una scelta razionale, ho scritto soltanto dell’ambiente che conoscevo meglio. Diciamo che dal mio punto di vista l’appartenenza alla classe operaia non si definisce tanto dai soldi che si hanno in tasca, quanto piuttosto dal modo in cui si decide di spenderli. È prima di tutto una questione di cultura. Scrivere del ceto medio significa necessariamente preoccuparsi di status symbol come i mobili, i vestiti, le auto. Ma questo non è il mondo in cui sono cresciuto e anche ora che non posso certo dire di essere povero, non mi interessa granché.

Per far soldi, Jimmy vuole raccogliere vecchie canzoni irlandesi, ma non cerca pezzi tradizionali, bensì sogna di scoprire qualche blues dimenticato, censurato, spiega, perché, «non corrispondeva all’immagine che De Valera aveva all’epoca del paese». Nei «Commitmens» si suonava soul, qui si evoca il blues di Chicago, più che alla musica celtica lei sembra pensare che l’Irlanda sia legata alla cultura afroamericana. È il suo modo di interpretare l’identità del paese?

Non so se siamo imparentati con gli afroamericani, ma mi piacerebbe tanto che fosse così. Il soul dei Commitmens era la musica che ascoltavo all’epoca, e che comunque in Irlanda era trasmessa moltissimo dalle radio. Quando alle ricerche di Jimmy, beh credo che in effetti abbiano a che fare almeno in parte con la mia idea di identità. Mi spiego. Il «Congresso eucaristico» del 1932, più che un fatto religioso, rappresentò per molti soprattutto il primo evento internazionale che si teneva nel paese: chi non vi prese parte, restò incollato alla radio per giorni per seguirlo. Allo stesso modo, sorprendentemente per un paese così cattolico e in un’epoca in cui la religione e la Chiesa dominavano ogni cosa, molte delle canzoni di quel periodo erano piuttosto sconcertanti. Ce n’era ad esempio una che si cantava ancora quando ero ragazzo. È la «Ballata dell’omicida», che hanno cantato intere generazioni di dublinesi: una canzone su una donna che uccide il suo bambino appena nato con un coltello in mezzo ad un bosco. Quando avevo otto o nove anni, cantavamo questa canzone a squarciagola nel cortile della scuola, ci mettevamo molta gioia, come se si trattasse di un inno alla Vergine Maria. Ecco, tutto questo fa parte della nostra educazione irlandese, del nostro essere irlandesi.

La lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna è uno dei capitoli fondamentali della storia irlandese. Oggi cosa prova nel vedere che gli inglesi vogliono essere indipendenti dall’Europa e che l’Ukip, il partito che difende questa idea bizzarra, è il più votato?

In effetti, a prima vista potrebbe quasi sembrare un cosa buffa o paradossale – cosa significa voler essere indipendenti da un organismo plurinazionale, collettivo per definizione? -, ma in realtà è qualcosa di preoccupante e che in me desta parecchia inquietudine. Questa ondata di destra che scuote l’Europa non mi lascia tranquillo. Ma sto cercando anche di capire cosa sta succedendo davvero. Partiamo da un elemento che mi sembra centrale. Secondo un censimento che è stato fatto due o tre anni fa, almeno un abitante su dieci della Repubblica d’Irlanda è nato in un altro paese. Eppure, da noi, questo argomento non si è mai trasformato in un tema da campagna elettorale. In questi giorni, invece, ho letto che in Danimarca un abitante su otto è di origine straniera, e da loro la cosa è diventata così seria che un partito di estrema destra ha vinto le elezioni. Questo mi fa capire che non devo sottovalutare troppo il fatto di vivere in Irlanda e che, forse, il modo migliore di affrontare questi temi assomiglia un po’ al mio paese e alla musica che amo: è un mix senza fine. Dublino, la mia città, riassume in sé quello che considero uno degli antidoti migliori al razzismo e all’intolleranza: reinventa e ridefinisce senza sosta la propria identità e la propria cultura. Credo sia l’unico modo per potersi dire orgogliosi di vivere in un determinato paese senza fare danni o escludere qualcuno.