Voce profonda e calda – l’appellativo più comune all’epoca di Handful of Joy, l’album di debutto e contemporanea affermazione nell’ambito del soul jazz con ambizioni da dance floor – era stato quello di Barry White italiano. Mario Biondi non ha mai fatto mistero delle sue passioni rivolte alla black music, e i suoi dischi nel tempo sono serviti come tavolazza su cui apporre diversi colori e sfumature.

ANCHE IL NUOVO LAVORO appena pubblicato prova a muoversi su vari territori, ma sempre tenendo presente la matrice black. Già dal titolo, Dare, scelto non a caso per la doppia valenza linguistica: in inglese il significato è osare, andare oltre che si contrappone all’italiano, donarsi, mette subito le carte in tavola. «Ho trovato una grande sincronia tra le due lingue – spiega l’artista siciliano durante uno show case di presentazione rigorosamente in streaming -: dare è un atto di grande forza, ma ci vuole coraggio per farlo. Nella mia vita ho fatto della parola dare una sorta di mantra e di modus vivendi».
Un disco oltre i generi, con cui ha festeggiato i 50 anni, compiuti il 28 gennaio: «perché la musica è bella, al di là dei timbri che gli mettiamo sopra». Ad accompagnarlo in questa avventura – 16 tracce con 10 brani originali, 2 remix e 4 reinterpretazioni di grandi successi come Strangers in the Night resa celebre da Frank Sinatra, Cantaloupe Island di Herbie Hancock, Jeannine di Eddie Jefferson. Ma soprattutto Someday We All Be Free, rivisitazione in chiave jazz dell’inno soul di un grande un po’ dimenticato come Donny Hathaway, «una responsabilità grandissima andare a toccare i suoi standard, ma mi sono dato la patente per farlo». Un disco di cover di Hathaway? «Lo amo tantissimo e ho sempre avuto come un timore reverenziale a rifare i suoi pezzi. Fabrizio (Bosso, ndr) mi ha spinto a riprendere quel brano, ma non so se riuscirei a dedicargli un intero lavoro». Poi ci sono amici vecchi e nuovi come Dodi Battaglia, Il Volo (ma a dire il vero l’incontro con i tre tenori sa tanto di pastiche un po’ raffazzonato e in certi punti tocca vertigini kitsch…) , la band londinese degli Incognito, la formazione attuale con cui girava il mondo nell’era pre-Covid, la cantante e pianista jazz tedesca Olivia Trummer, ma anche i musicisti con cui Mario ha raggiunto il successo a metà degli anni 2000.

OVVERO gli High Five Quintet di Fabrizio Bosso con cui ha inciso l’album d’esordio, si sono riformati per lui dopo diversi anni di stop: un’alchimia fra la voce di Biondi, gli arrangiamenti e i virtuosismi del trombettista torinese terribilmente efficaci.
Incognita, intanto, sui due concerti dal vivo in programma il 14 e il 16 marzo rispettivamente a Roma e Milano. «Noi vogliamo esserci, anche in condizioni difficili. Un anno di stop si sente, non è semplice rimettersi in gioco ed essere fluidi. Ma siamo pronti».