Elezioni posticipate, ma il governo di unità nazionale non è in discussione, nonostante cresca il consenso verso Hamas e diminuisca quello verso Fatah, prima vittima delle politiche dell’Autorità Nazionale Palestinese. «L’attacco non è contro Gaza, ma contro il popolo palestinese – spiega al manifesto Fouad Kokali, parlamentare del Consiglio Legislativo palestinese e membro del comitato politico di Fatah – Non è cominciata un mese fa, ma nel 1948 con la creazione di Israele. Per questo, il governo di unità nazionale è un dovere, un caposaldo. Ogni fazione palestinese, in particolare Hamas e Fatah, ha assunto l’impegno della riconciliazione. Prova ne è la delegazione che domenica ha discusso al Cairo la proposta di accordo. Rappresentanti di tutti i partiti politici palestinesi, da Ramallah, Gaza, Damasco, vi hanno preso parte».

L’obiettivo, dice, è chiaro: non è immaginabile il ritorno alla situazione precedente l’offensiva. Nessun ripristino dello status quo e ricostruzione di Gaza sono le richieste palestinesi, seppure non manchino le divisioni interne. Le elezioni, previste per la fine dell’anno, «saranno posticipate, per la situazione in cui versa Gaza», rimandate per l’ennesima volta. Da quattro anni il popolo palestinese non viene consultato e il timore oggi, per le fazioni rivali, è di un incremento ulteriore del consenso verso il movimento islamista: «I palestinesi sono sotto pressione, è naturale che si sentano attratti da Hamas – prosegue Kokali – Ma la situazione cambierà. Ora tutti parlano della necessità della resistenza armata perché scioccati da quanto successo a Gaza, ma quando questa aggressione finirà ufficialmente il popolo ripenserà alla questione in modo ragionevole».

A monte il concetto stesso di resistenza, che tra i leader di Fatah in Cisgiordania e quelli a Gaza non sembra coincidere. Da Ramallah, seppure a parole si sostenga il diritto di resistere anche con le armi, la convinzione è che il lancio di missili sia controproducente: «Dobbiamo usare la testa, non dare ad Israele l’opportunità di distruggerci. Fatah crede ancora alla resistenza armata, ma come ultima possibilità. A Gaza siamo presente con il nostro braccio armato, ma la resistenza deve prima di tutto garantire la sicurezza della gente. Deve anche colpire il nemico, fare pressione. Ma guardiamo ai fatti: questa è la terza offensiva contro Gaza, qual è stato il risultato di questo tipo di resistenza? Oltre 4mila martiri, 15mila feriti, 100mila case demolite. Dall’altra parte non abbiamo danneggiato la società israeliana. Sono solo i palestinesi a soffrire: noi crediamo nella resistenza contro l’occupazione, ma non possiamo farlo con le armi perché la controparte è troppo forte».

Una posizione che trova sempre meno sostegno in Cisgiordania, dove la maggioranza della popolazione si sta muovendo autonomamente dalle leadership politiche, accusate di servilismo verso le posizioni statunitensi, e quindi israeliane.

Nemmeno la paventata adesione alla Corte Penale Internazionale scalda gli animi. Ieri il ministro degli Esteri dell’Anp ha visitato il tribunale dell’Aja, ma Ramallah continua a considerarla «una possibilità concreta ma non nell’immediato – aggiunge Kokali – Va fatto all’interno di una visione strategica, un’agenda politica volta a fare pressioni internazionali su Israele». Eppure, i crimini di guerra vengono compiuti ora, ogni giorno da un mese, contro scuole, ospedali, rifugi dell’Onu: «Verissimo, per questo in questo momento stiamo raccogliendo prove e stilando rapporti da usare in seguito».

Insomma, Fatah punta a far durare alla tregua, poi si discuterà di crimini israeliani, di status quo e ricostruzione di Gaza. Il partito non intende mollare l’alleato Sisi, ma nemmeno la riconciliazione con Hamas: «Sarà il governo di unità nazionale a gestire Gaza. Il governo è ormai una realtà. Ci sarà da ricostruire tutto, infrastrutture, case, scuole e ospedali, ci sarà da affrontare una crisi umanitaria di vastissime dimensioni e per questo avremo bisogno del sostegno del mondo arabo, Egitto in testa. Ma senza fare pressioni sul Cairo, un paese alle prese con una crisi economica interna, con attentati terroristici in Sinai, con l’instabilità che arriva dai confini con Libia e Sudan, con i contrabbandieri di armi. Non guardiamo al Cairo come ad un semplice mediatore, ma come parte integrante del conflitto in corso. E, rendendoci conto delle circostanze interne, sappiamo di non poter per ora cambiare le sue posizioni in merito alle richieste palestinesi».

A monte resta la tregua senza condizioni appena archiviata, prima il cessate il fuoco e poi i negoziati. Fatah, per quella proposta, ha forzato la mano di Hamas perché «le nostre legittime richieste sono archiviabili solo con lo stop dell’aggressione». E dei missili da Gaza.