“E’ questa grande tragedia con cui noi, che siamo stati anche militanti della sinistra abbiamo da fare i conti. È inutile continuare a trovare delle giustificazioni per le delusioni che noi abbiamo dalla storia. È tempo che ci fermiamo, che guardiamo cosa succede e tiriamo delle conclusioni”, ammetteva Tiziano Terzani nel documentario Viaggio nella follia cambogiana.

Lo scorso 31 ottobre a Phnom Penh si chiudeva il processo per crimini contro l’umanità e genocidio contro due dei maggiorenti del regime dei Khmer rossi, i cui tre anni al potere in Cambogia fecero almeno 1,7 milioni di morti per stenti, fame, torture, esecuzioni sommarie nel tentativo di creare una utopistica società agraria e comunista. Nuon Chea, 87enne ideologo del regime noto come il “fratello numero 2”, e Khieu Samphan, 82enne ex capo di Stato dell’allora Kampuchea democratica, sono gli ultimi due dei quattro imputati iniziali nel processo che dovrebbe dare giustizia per i crimini commessi tra il 1975 e il 1978.

Racconta Terzani in Fantasmi dell’iniziale diffidenza verso i racconti terribili dei profughi che riuscivano a fuggire. Ancora nel 1978 una delegazione svedese, tra i pochi stranieri cui fu permesso entrare nel Paese, poté viaggiare per la Cambogia “senza vedere segno dello sterminio in atto”. Come questo sia potuto accadere è stato ricostruito dal giornalista svedese Peter Fröberg Idling ne Il Sorriso di Pol Pot. Il racconto è costruito su più livelli.

C’è l’indagine di Idling che ripercorre “i mille chilometri d’idillio nel bel mezzo dell’inferno in terra” e parla con i quattro osservatori: Gunnar Bergström, Hedda Ekerwald, Marita Wikander e Jan Mydal, quest’ultimo influente intellettuale, figlio dei Nobel Alva e Gunnar Mydal. “Sarebbe stato possibile pretendere da Gunnar, Marita, Jan e Hedda che vedessero oltre la facciata? Avrebbero dovuto capire che bisognava interpretare i segni?”, scrive il giornalista nel propendere per il sì. Per poi chiedersi: “Sarei riuscito io stesso a vederli, se fossi stato lì nel 1978?”. La risposta è che non lo sa. Il secondo livello è quello dei diari dei resoconti di viaggio dei quattro. Il terzo la storia di Pol Pot, dei fratelli-compagni, dei khmer rossi che vestiti di nero entrarono a Phnom Penh nell’aprile del 1975. Fino alla morte del fratello numero uno, nella giungla, nel 1998.

“Pol Pot è morto come una papaya matura che cade dall’albero. Non l’ha ucciso nessuno, non l’ha avvelenato nessuno. Adesso è finito. Non ha potere, non ha diritti, non è altro che letame. Il letame vale più di quanto valga lui. Quello, lo si può usare come concime”, disse Ta Mok, che nel 1997 depose Pol Pot da leader dei Khmer rossi prendendone il posto, per essere arrestato due anni dopo e morire in carcere nel 2006. Sei anni dopo Kaing Guek Eav, noto come Duch, direttore del carcere-lager S-21 in cui morirono almeno 15mila cambogiani fu condannato all’ergastolo. L’anno prossimo potrebbe toccare a Nuon Chea e Khieu Samphan, per i quali l’accusa ha chiesto la condanna a vita.

Peter Fröberg Idling
Il sorriso di Pol Pot
ed. Iperborea
euro: 17,00