Curioso destino quello di Gene Wilder. Essere pianto e ricordato per un film, Frankenstein Jr., grazie soprattutto all’eccellente lavoro di adattamento di Mario Maldesi e al doppiaggio di Oreste Lionello, per una serie di battute epocali. Non a caso un amico, dal senso dell’umorismo piuttosto acuto, commenta la dipartita dell’attore con un affettuoso e triste «Ora noi aldilì, lui aldilà…». In realtà, come accade sovente, dietro la maschera del sodale per eccellenza di Mel Brooks, insieme all’ineffabile Marty Feldman, si cela un attore raffinato che reinterpreta in maniera assolutamente personale la tradizione della comicità yiddish. Gene Wilder, per certi versi, era l’incarnazione dello schlemiel (il «sempliciotto») in un contesto citazionistico, così come era inteso il cinema brooksiano nella sua formulazione più alta. Infatti Brooks applica lo sguardo disincantato dello schlemiel ai materiali dell’industria culturale e dell’immaginario collettivo.

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Come afferma Maria Felicia Schepis nel libro Colui che ride. Per una ricreazione dello spazio politico «L’ebreo, nel rappresentare se stesso come schlemiel, si libera dall’oppressione di una verità – quella del più forte – quando tutto sembra determinato, fissato, perduto. Si libera insomma dall’essere vittima sul punto di essere sacrificato; una risposta inattesa trasforma un momento disperato in uno divertente, un momento che dis-verte, appunto, volge in un’altra direzione la storia». Lo schlemiel, prosegue la Schepis, è «la propensione a rifiutarsi alla catastrofe». E, soprattutto, la capacità di sopravviverle. «Si tratta dell’ultima risorsa del perdente (…). Nel suo personaggio si incarnano le strategie escogitate dal popolo ebraico nella lotta per la sopravvivenza in un universo spesso ostile (…)». E, infine, sempre attingendo allo studio della Schepis, «rappresenta l’irruzione dell’incongruo dentro una dimensione collettiva che tende a soffocare, nell’illusione di un ordine assoluto, quanto è irrazionale».

Anche da questi brevi passi saccheggiati dallo studio della Schepis, si intuisce che Gene Wilder, pseudonimo di Jerome Silberman, nato l’11 giugno del 1933 a Milwaukee, la cittadina di Happy Days e dove Ozzy Osbourne ha azzannato un pipistrello durante un concerto, ha rappresentato un’interpretazione del tutto particolare della figura dello schlemiel. Soprattutto nella collaborazione con Mel Brooks, Wilder ha saputo incarnare un’idea di caos sottile ed elegante tale da offrirsi come il correlativo oggettivo della poetica dell’accumulo e della citazione del regista. Se Brooks si muove in un universo dei segni la cui dimensione incongrua, e la giustapposizione di codici provoca l’ilarità, Wilder, che si offre come il principio, impotente, della ragione, come l’elemento che vuole restaurare l’ordine e il senso, inevitabilmente destinato a fallire, non può che essere il doppio dello spettatore, nel suo tentativo di mettere ordine nel mondo (impazzito) dei segni.

Curioso ricordare che Frankenstein Jr. inizialmente non suscita l’interesse di Brooks e che per una serie di ragione il film esce quasi contemporaneamente con Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Entrambi i film si rivelano straordinari successi commerciali ma la carriera d’attore di Wilder, i cui esordi non sono stati facilissimi, nel 1976 lega il suo nome a Wagon-Lits con omicidi (il doppiaggio italiano rende memorabile il suo «Porca puttana!» ogni volta che viene sbattuto fuori dal treno), al suo fianco Richard Pryor il quale, ormai dipendente da cocaina in maniera terminale, tentava di restare disperatamente a galla. Il film è un successo è nel 1980, su insistenza di Sidney Poitier Wilder ritorna in coppia con Pryor per Non guardarmi non ti sento. L’anno prima, per la regia di Robert Aldrich, interpreta un rabbino nel far west in Scusi, dov’è il West?, con un giovane Harrison Ford.

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Gli anni Ottanta non sono molto generosi con il protagonista di Willy Wonka (1971) che non sempre sceglie adeguatamente i film che gli vengono proposti. Nonostante Wilder riesca sempre a conferire ai suoi personaggi un’aria di stralunata e surreale malinconia, i giorni migliori sembrano essere ormai un lontano ricordo. Ciò che resta di Gene Wilder oggi, al di là delle invenzioni del doppiaggio ormai affidate saldamente alla storia del costume, è l’arte di un interprete legato a una serie di successi proverbiali, forse troppo vulnerabile per reggere l’onda d’urto della comicità demenziale di marca ZAZ o SNL che all’inizio degli ’80 ridefinisce il panorama comico del cinema statunitense.

Con Wilder scompare dunque una formulazione del comico ancorata anche una filosofia umoristica tipica della tradizione ebraica. Una comicità in grado di chiedere ragione al mondo dei suoi orrori, senza mai fare sconti ma sempre sorridendo amaro.