Il 2018, non vi è dubbio, ha visto spostarsi decisamente a destra gli equilibri politici europei, dal nord al sud, dall’est all’ovest. Nello stesso tempo questo spostamento non sembra per nulla in grado di modificare le politiche dell’Unione, le sue regole e le modalità di azione delle élites che le sorvegliano e le governano. Per quanto l’insofferenza nei confronti della burocrazia europea sia da tempo radicata e le demagogie nazionaliste le imputino anche colpe e responsabilità di origine schiettamente nazionale, i cittadini dell’Unione sono sempre meno inclini a prendere in considerazione la via dell’exit. Se è vero che un immaginario europeista non ha mai davvero preso forma è anche vero che non è agevole per nessuno pensarsi concretamente fuori dall’Unione. I tormenti, le lacerazioni e le incertezze che hanno accompagnato e continuano ad accompagnare la dipartita della Gran Bretagna stanno a dimostrarlo. L’Europa insomma non convince e irrita, ma abbandonarla spaventa.

Sul fronte cosiddetto “sovranista” circola intanto una leggenda. Lo spostamento su posizioni nazionaliste dell’asse politico in diversi paesi del Vecchio continente dovrebbe tradursi con le elezioni della primavera prossima in un radicale cambiamento degli equilibri nel Parlamento di Strasburgo. Il quale, forte della sua investitura democratica, si troverebbe finalmente nella condizione di riformare profondamente l’Unione europea nel senso di una mitica “Europa dei popoli e delle nazioni”. Fatto sta che proprio l’impianto “sovranista” dell’Unione pone un limite invalicabile alla sfera di azione del Parlamento europeo nei confronti di sovranità nazionali che non intendono affatto rinunciare alle proprie prerogative. È soprattutto un’idea sovranazionale della politica non essenzialmente fondata sull’accordo tra gli stati nazionali quello che i nazionalismi di ritorno considerano come il peggiore dei mali. Nella teoria poiché affermano che questa non possa darsi in forme democratiche, nella pratica perché vedono come fumo negli occhi qualsiasi limitazione del potere nazionale e di chi lo detiene, attraverso dispositivi di democrazia sempre più simulata, “in nome del popolo”. Le elezioni europee, se le formazioni nazionaliste dovessero prevalere nella misura in cui sperano, farebbero del Parlamento una rumorosa tribuna ideologica, costretta però in concreto all’alleanza tra “populismi” e liberalismo conservatore. Poiché ormai è del tutto evidente nelle realtà nazionali più diverse, che il patto stretto tra i cosiddetti populisti e la grande proprietà è, secondo le più classiche tradizioni del nazionalismo, saldo e imprescindibile.

Ecco perché quando, come succede in Francia, un movimento prende di petto le radici fiscali e gerarchiche della diseguaglianza, i privilegi della classe dominante e invece di denunciare oscuri complotti sovranazionali o le imposizioni dell’“eurocrazia” si rivolta contro l’avidità e l’arroganza della borghesia nazionale e del suo braccio politico, il gioco del nazionalismo, per quanto si sforzi di cavalcare e manipolare gli eventi, si rompe. Lo ha capito perfettamente il ministro dell’economia tedesco Peter Altmaier, avvertendo che i gilet gialli non hanno niente a che vedere con i politici nazionalpopulisti e la loro ideologia e possono dunque veramente mettere in mora il riformismo liberale, nel caso specifico quello perseguito da Emmanuel Macron.

Dunque bisogna scendere a compromessi. Macron ha dovuto cedere e le regole europee dietro di lui. Basta mettere a confronto questa vicenda con quella penosa della legge di bilancio italiana per capire che cosa può effettivamente forzare la mano all’ortodossia liberale che regna sovrana tra Berlino e Bruxelles e cosa, invece, rimane nell’ambito della commedia dell’arte.

La Germania resta il perno del sistema, non solo il suo motore economico, ma anche la sua testa politica. Che è ancora, nonostante tutto, quella di Angela Merkel, che per due anni ancora la guiderà e comunque si è assicurata una discendenza politica. Berlino non rinuncerà a tenere insieme l’Europa, spingendo l’Unione a sostenere con ogni mezzo la Francia, e facendo conto sulla debolezza di un euroscetticismo che i cittadini del Vecchio continente non sembrano immaginare come una possibile alternativa.