Anche i ricchi piangono un po’ in Venezuela, soprattutto se sono carnivori, quando la guerra economica diventa sabotaggio cibernetico ai danni della principale centrale idroelettrica del paese, a Guri, nello Stato di Bolívar.

A Barquisimeto, nello Stato di Lara, cinque ore di pullman da Caracas, l’elettricità è andata via alle 16 del 7 marzo e domenica il black-out era ancora in corso. Rubinetti a secco, frigoriferi fuori uso, svendite di prodotti deperibili, niente wi-fi. Il problema principale sono gli ospedali, quelli piccoli che non hanno generatori. Impossibile verificare le cifre delle vittime, più facile capire su quali coscienze gravano. La guerra elettrica è uno strumento già utilizzato altrove (Iraq), con le bombe però.

Per il resto la gente si organizza, tutto sommato tranquillamente, sperando che passi. Senza elettricità, in un complesso di tre palazzi di quindici piani abitati da barquisimetani benestanti o ricchi, la vita cambia passo. La mattina una processione di uomini, donne e ragazzi con recipienti di varie dimensioni scende con cautela per le scale interne e del tutto buie (in genere si usa esclusivamente l’ascensore), per andare a procurarsi un po’ d’acqua nella piscina privata sottostante. L’acqua per la cucina la pescano nella cisterna, improvvisandosi contadini africani al pozzo del villaggio.

La mattina del primo giorno una donna commenta il sabotaggio cibernetico: «Macché, non è vero, lo hanno fatto apposta quelli, per dare la colpa all’opposizione». Dopo un giorno a secco e al buio, la musica diventa: «Incapaci, non riescono a riparare un guasto». Intanto nel bel parco privato dei tre palazzi, dove nessuno ha pensato di piantare un banano, seminare un’insalata o ricavare un’area di compostaggio, un ragazzo senza muscoli tira pugni a un sacco da pugile mentre altri accompagnano il cane.

Tutto sommato anche i ricchi sembrano prenderla alla leggera. La sera, al buio, mentre svuotano di carne e pesce il frigo ormai tiepido, i condomini lanciano da una finestra all’altra insulti pesanti al presidente Maduro, suonano trombette da stadio e battono le pentole. Niente inni all’autoproclamato presidente Guaidó, forse già bruciato anche se tiene liberi comizi.

«Magari convocheranno una manifestazione, ma prima si procurano il kit: berretto, crema solare e via dicendo», ironizza Marie-Lizette, l’unica chavista del palazzo. Abita all’undicesimo piano con due figli e un cane. Il bagno di casa risente pesantemente dell’assenza assoluta di acqua corrente e della penuria di quella prelevata in piscina.

Molto meglio, pulita e dotata di secchi e sapone, la toilette della casupola di latta e legno di Alianì, mamma di Diego, che vive nella Ciudad productiva comunal Ana Soto. Nel frigo non aveva eccessi da smaltire e sul tavolo nel piccolo frutteto ha portato riso, caraota (fagioli neri) e un’insalata di rape e avocado.

La Ciudad è nata su collinette a pochi km da quei palazzi benestanti, ma si respira tutt’altra aria. Oltre dieci anni fa un gruppo di persone, in nome della lotta contro il latifondo urbano lanciata dall’allora presidente Hugo Chávez, occupano un pretenzioso palazzo disabitato dagli enormi appartamenti, di proprietà incerta tanto che ora nessuno lo rivendica più.

Nello spazio circostante si raggruppano via via oltre un centinaio di famiglie provenienti da altre situazioni di disagio. Costruiscono case minuscole di due o tre stanzette più bagno con materiali di recupero, si allacciano a luce e acqua costruendo perfino una condotta di oltre un chilometro (orgogliosamente spiegano che pagano la bolletta, tutti insieme), piantano banani, manghi, avocado, canna da zucchero che grandi e bambini succhiano con gusto, seminarono ortaggi ed erbe medicinali.

Da dieci anni coltivano anche un sogno, come dicono in un’assemblea improvvisata, al buio sotto le stelle: costruirsi vere casette in bioedilizia, in terra cruda – sono andati a vedere quelle costruite nella località Miguelita – e mettere a coltura i tanti ettari di terra di nessuno lì attorno, una volta risolto il problema dell’acqua. Hanno però bisogno dell’appoggio economico pubblico, da parte della Misión Vivienda (missione casa). Sono pazienti ma scalpitano. Anche l’energia solare è nei loro programmi, dicono.

Il solare decentrato non è sabotabile. In un incontro di attiviste barquisimetane l’8 marzo a piazza Bolívar, una delle partecipanti lancia questo appello: «Approfittiamo di questa lezione per imitare Cuba: sono stata due volte a Santiago e l’energia del sole è dovunque». Non c’è microfono, e il frastuono delle auto di passaggio – malgrado qualche coda per la benzina – parla di un paese petrolifero.

Domenica, di ritorno a Caracas, sul bus che collega la stazione delle corriere extraurbane alla metro Hoyada (che non funziona per ovvie ragioni di sicurezza), un uomo spiega che sì, a Caracas la luce è tornata anche se non dappertutto e che però tutto è tranquillo, il sabotaggio non è riuscito nell’intento. Poi scende, con la ruota di un motorino sotto il braccio. Invano ha cercato un amico meccanico.

È domenica pomeriggio e i giocatori di scacchi e domino sotto il ponte delle Forze armate sono tanti. Non demordono. E gira su Whatsapp un breve video dove le persone festeggiano il ritorno della luce lanciandosi dei «viva Chavez» da una finestra all’altra, nella sera fresca della capitale.