Il soldato Bradley Manning, la fonte di Wikileaks, è stato assolto dall’accusa di intelligenza col nemico ma colpevole per oltre 19 capi d’imputazione legati allo spionaggio. Il tribunale militare statunitense di Fort Meade, nel Maryland, inizierà oggi le udienze per stabilire l’entità della condanna. Evitato l’ergastolo per il reato più grave, il soldato 25enne rischia fino a 136 anni di carcere.
Manning ha trasmesso al sito Wikileaks oltre 700.000 documenti segreti: riguardo alla guerra in Iraq, in Afghanistan, sulla base navale di Guantanamo, oltre a moltissimi cablogrammi diplomatici che, a partire dal 2010, hanno creato parecchio imbarazzo a Washington. Il soldato, detenuto dal 2010 e sotto processo dal 3 giugno, ha ammesso la propria colpevolezza per 10 capi d’imputazione, sui 21 di cui ha dovuto rispondere. Ha però rifiutato l’accusa più grave, quella di collusione con il nemico – con al-Qaeda, soprattutto.
Nel 2009 Manning era di stanza a Baghdad, in Iraq. E come semplice impiegato dell’intelligence militare aveva accesso a due reti segrete attraverso le quali il dipartimento di stato e quello della difesa si scambiavano informazioni top secret. Così aveva visto il video sull’uccisione di dodici civili, tra cui due inviati Reuters, ad opera di un elicottero Usa. Aveva allora deciso di farne una copia da passare ai giornali. Il tentativo non era andato in porto e allora Manning decise di trasmettere tutto a Julian Assange, cofondatore del sito Wikileaks. Il 5 aprile del 2010 Wikileaks ha diffuso quel video (titolato Collateral murder).
Tradito e denunciato da un hacker, Manning è stato arrestato e ha provato a spiegare ai giudici militari il motivo di quel gesto: «Pensavo che se l’opinione pubblica le avesse conosciute si sarebbe sviluppato un dibattito sul ruolo dell’esercito e della nostra politica estera», aveva detto. Non a caso la difesa ha presentato il suo assistito come un giovane ingenuo e depresso, un idealista.
Le speranze nutrite da Manning sull’opinione pubblica sembrano però smentite dai sondaggi: il 56% della popolazione Usa ritiene che il programma di sorveglianza Prism è «accettabile» e il 45% che lo stato deve «essere capace di sorvegliare la posta elettronica di chiunque per lottare contro il terrorismo», ha scritto il Washington Post. «Risultato poco sorprendente – scrive David Price sul prossimo numero di Le Monde diplomatique (in uscita il 20 agosto con il manifesto) -: da oltre dieci anni, media, esperti e dirigenti politici insistono a presentare la sorveglianza come un’arma indispensabile nella “guerra al terrorismo”». Un consenso che non esisteva prima dell’11 settembre 2001. Qualche settimana prima degli attentati alle Torri gemelle, un sondaggio rivelava infatti che quattro cittadini su dieci non avevano fiducia nell’Fbi. Ora c’è un’altra America, molto lontana da quella che si oppose alla guerra in Vietnam e nutrì simpatia per le «gole profonde» di allora.
A manifestare sostegno all’ex soldato gay, c’erano però gli attivisti della campagna «Io sono Bradley Manning», che hanno protestato per i suoi tre anni di dura detenzione e che lo hanno proposto per il Nobel. Manning ha atteso il verdetto in una cella di Fort Meade, che è anche quartier generale della Nsa. Dall’ambasciata ecuadoregna a Londra – dove ha trovato rifugio da un anno e da cui non riesce a uscire pena l’estradizione – ha seguito il processo anche Julian Assange: secondo il quale gli Usa hanno tormentato Manning perché lo coinvolgesse nelle accuse. E dal terminal dell’aeroporto moscovita di Seremetevo ha atteso la sentenza di Fort Meade anche Snowden, in attesa dell’asilo temporaneo promesso da Putin. Washington però preme su Mosca. E sempre ieri ha fatto sapere che potrebbe inviare a Snowden un passaporto temporaneo purché ritorni in patria Usa ad affrontare il processo.