Il percorso di espiazione di Mel Gibson non poteva essere più evidente – e cristologico – anche se per interposta persona, di quello fornito con Hacksaw Ridge. Ispirato alla vicenda di Desmond Thomas Doss, il primo obiettore di coscienza a essere insignito della Medal of Honor, la massima onorificenza militare statunitense, il film, che vede il ritorno di Gibson alla regia dopo l’eccellente (e controverso) Apocalypto, ha di fatto permesso a «Mad» Mel di essere riammesso nella comunità della Hollywood bene dopo le furibonde e inaccettabili tirate antisemite e sessiste.

Che a Gibson sia riuscito il più improbabile dei comeback è già motivo sufficiente per ammirare la sua tenacia e caparbietà, se si tiene conto che in mezzo c’è stata pure la disastrosa avventura del progetto The Macabees su sceneggiatura di Joe Eszterhas che poi è diventato materia dell’incandescente libro Heaven and Mel . Ed è proprio da quest’ultimo resoconto della follia di Gibson che sembrava impossibile che Hollywood gli concedesse un’altra opportunità. Eppure.

Il cinema secondo Mel Gibson regista oscilla da sempre fra un eccesso barocco prossimo al kitsch (e al cattivo gusto, esemplare La passione di Cristo) e una folle convinzione nella propria rettitudine da sfidare il ridicolo (l’insurrezionale Braveheart). A tenere uniti questi due estremi, che tali non sono, in quanto espressione entrambi della medesima poetica dell’eccesso, è la fiducia cieca di Gibson in una violenza primordiale dell’immagine che sovente si esprime anche nei ruoli che l’attore interpreta (basti pensare all’autolesionismo masochista in Payback per la regia di Brian Helgeland).

Hacksaw Ridge, in questo senso, esprime il meglio e il peggio del cinema gibsoniano e a ben vedere si offre come l’altra faccia della medaglia di We Were Soldiers, tetragono war movie dal divertente sapore reac firmato da Randall Wallace. Se in questo ultimo, Gibson si offriva come carne da macello sacrificale di un’idea di cinema nel quale sangue e sofferenza sono la materia prima, Hacksaw Ridge permette di osservare questa medesima tensione all’opera da un punto di vista apparentemente agli antipodi. L’equivoco di fondo è ritenere che Gibson abbia diretto un film pacifista cosa che Hacksaw Ridge non è affatto.

Nel mettere in scena la vicenda di Doss, Gibson offre di se stesso un ritratto contrito. L’abiura della violenza, il rifiuto di imbracciare un fucile, è religiosa, addirittura fondamentalista, non politica. La guerra in quanto tale non è mai messa in discussione ed è proprio questa contraddizione, diremmo «ideologica», che permette al film di funzionare in quanto macchina spettacolare.

Se la prima parte scorre via in maniera alquanto prevedibile fra vessazioni e l’inflessibilità del protagonista nell’affermare il suo diritto di partecipare allo sforzo bellico, Hacksaw Ridge si rivela pienamente un film di Gibson nella seconda parte, quando si tratta di mettere in scena l’offensiva sull’isola. E se da un punto di vista spettacolare il film non aggiunge a quanto non sia già visto nell’eccellente serie Hbo The Pacific non si può non riconoscere a Gibson un massimalismo che non avrebbe sfigurato in casa Cannon – si pensi a Joseph Zito o a George P. Cosmatos di Rambo II (che però era più sottile).

Il problema di fondo è che Gibson, ma non è una novità, si prende tremendamente sul serio e non ci vuole molto per capire che Hacksaw Ridge è la versione «laica» de La passione di Cristo. In fondo, come sempre, bisogna perdere la propria vita per trovarla e riscoprirne ragioni e motivazioni.

Lo spettacolo della carne lacerata e fatta a brandelli, offesa, mortificata dal fuoco e dal piombo, lo si riscatta successivamente con il sacrificio assoluto della propria vita per il prossimo, per il fratello ferito che in questo caso è il soldato rimasto sul campo. E se la vicenda di Doss è esemplare nel suo eroismo, Gibson (un po’ come Peter Berg nell’ottimo Lone Survivor) la sovrappone ai superstiti autentici di ieri.

In questo modo Hacksaw Ridge coglie bene, anche se forse in maniera involontaria, la torsione confessionale (e sottilmente fondamentalista) di un pacifismo cristiano che in fondo è sempre bene armato.
Rispetto ai precedenti film di Gibson regista si rimpiange la follia tremendistica di Apocalypto e persino il cattivo gusto di La passione di Cristo. Qui tutto è un tantino troppo «ideologico» nel suo volersi offrire come «non ideologico» ma valoriale, umanistico. Come di chi mentre dice una cosa in fondo ne afferma un’altra ma non intende scoprirsi troppo.