A quasi mezzo secolo dalla fine, la guerra del Vietnam continua a essere una fonte letteraria anche per chi di quel conflitto non ha avuto alcuna esperienza diretta. Nel secondo romanzo di Salvatore Scibona, nato nel 1975, l’anno in cui la guerra terminava, l’incubo del Vietnam occupa solo la prima parte, ma è un evento cruciale perché fornisce la matrice ai tentativi, in gran parte fallimentari, messi in atto dai protagonisti per dare forma ai propri progetti di vita.

Rispetto al primo romanzo di Scibona, centrato sulla comunità italo-americana di Cleveland, dove lo scrittore è cresciuto, Il volontario (traduzione di Michele Martino, 66th and 2nd, pp. 421, € 20,00) nutre maggiori ambizioni ed è l’ultimo in ordine di tempo tra i numerosi tentativi di produrre, come ha scritto Maxine Hong Kingston, non più «il grande Romanzo Americano», ma un global novel, capace di tracciare i contorni di un mondo ancora più ampio di quello, già vasto, americano, e di evocare uno spazio-tempo planetario, inter e trans- nazionale. Il mondo, insomma, di una postmodernità che non è più solo quella degli Stati Uniti, ma che nel conflitto del Vietnam ritrova – riecheggiando l’ipotesi di Fredric Jameson che ne ha parlato come della «prima terribile guerra postmoderna» – un momento fondativo.

Dal Midwest all’Estonia

Vollie Frade, alias Tilly Dwight, il «volontario» del titolo, sceglie l’esercito per fuggire dalla sua famiglia, da un mondo rurale fuori dal tempo, e naturalmente da se stesso, per ritrovarsi alla fine prigioniero in uno dei famigerati tunnel scavati dai vietcong, dove riuscirà a sopravvivere solo auto-cancellandosi; solo, cioè, cercando di preservare un sé distaccato dalla sua personalità precedente. Una volta riemerso, questo uomo del sottosuolo sarà costretto a lavorare per un’agenzia segreta, eseguendo operazioni commissionate da ignoti e riconducibili a ragioni anch’esse oscure. Per quanti tentativi faccia di emergere dall’oscurità, sembra che Vollie non riesca a ritrovare la luce, se non a sprazzi, in occasione di quelli che Robert Frost avrebbe descritto come «momentanee stasi di fronte al caos».

Il suo destino è analogo a quello degli altri personaggi di questa lirica e tragica saga familiare, in cui i padri e figli si rincorrono senza mai conciliarsi, forse anche perché i figli sono non voluti, e i padri non sono veri padri: non riguardo al legame di sangue, ma perchè – nel caso del rapporto tra Vollie e Elroy – la vecchia non ha da offrire alla giovinezza altro se non il proprio vuoto. Quanto al personaggio della madre, Louisa rappresenta, nel gioco di forze del romanzo, il principio dell’amore in contrapposizione alla violenza delle guerre: non solo quella del Vietnam, ma anche quelle in Afghanistan e in Medio Oriente del post-9/11, dall’eredità della Seconda guerra mondiale e persino da guerre future cui si fa cenno nel prolettico capitolo finale.

Un mondo marginale

Anche Louisa, tuttavia, non può sottrarsi alla dialettica di una personalità che si compone e scompone costringendola a un perenne vagabondaggio, distante anni luce da quello spazio comunitario che, con altri hippies, da giovane aveva cercato di costruire.

Le figure principali del romanzo appartengono a un mondo situato ai margini della società (e l’affiliazione di Vollie e Elroy con l’esercito non fa che confermarne, paradossalmente, la condizione socialmente ed esistenzialmente periferica), cui fanno da contrasto, sullo sfondo, strutture impersonali e indifferenti al destino dei singoli, manovrate da forze così misteriose e impalpabili da giustificare i numerosi rimandi alle Scritture e all’imperscrutabilità dei disegni divini, che formano una sorta di sotto-testo teologico.

L’intreccio tra sorveglianza, finanza, mondo della Rete, copre uno spazio che va dal Midwest al Vietnam, dal New Mexico al Medio Oriente, da New York alla Germania e all’Estonia, e in questo mondo il vecchio sogno americano di reinventare se stessi si realizza, invertendosi, nella distopia di un approdo all’anonimato.

L’epigrafe del romanzo ne riassume la sostanza con le parole sintetiche di Emily Dickinson: «Sono Nessuno. Tu chi sei? / Anche tu sei Nessuno?», mentre Scibona ci introduce in un universo dove diviene realtà il sogno descritto dal critico statunitense Richard Poirier: writing off the self, ovvero cancellare se stessi per poter divenire parte di qualcosa che vada oltre la prigione del sé. Ma nel romanzo, questo avviene senza procurare alcuna esaltazione, alcun godimento. Dickinson proseguiva scrivendo che, in un mondo dove l’apparenza già si imponeva sulla sostanza, era triste essere Qualcuno, e il suo desiderio di rifugiarsi in Nessuno esprimeva un principio di resistenza, di quasi aristocratico disdegno per chi dipendesse, invece, dalle opinioni altrui. Nel testo di Scibona, viceversa, la «volontà» di scomparire sembra piuttosto esprimere il desiderio di ritrarsi per lasciare il mondo così come è: «ti guardi intorno come se il mondo fosse completo (…) Come se per renderlo perfetto bastasse tirarsene fuori».

Un puzzle da ricostruire

Scibona, che con Il volontario è stato finalista al National Book Award, costruisce la vicenda come un puzzle le cui tessere assumono colore e contorni solo lentamente; ma nel collocarle al posto giusto il lettore capisce presto che se riuscirà alla fin fine a saperne di più (per esempio sul perché, nelle pagine iniziali del libro, un bambino viene abbandonato all’aeroporto di Amburgo) molto continuerà a sfuggirgli.
Lo stile di Scibona, che gli è valso molti commenti positivi, ha certamente il merito di ancorarsi all’ordinario per spingersi poi oltre, a suggerire che il mondo significa sempre qualcosa di più di quanto ci è dato inizialmente di percepire. Se qualcuno ha invocato Carver per mettere in luce il senso della realtà e la ricerca appassionata del termine giusto (un tratto che il traduttore ha saputo rendere con notevole perizia), a me viene da pensare viceversa soprattutto a Faulkner, perché oltre le cose si leva spesso (e forse troppo spesso) una voce narrante che le ripensa come frammenti di un discorso epico e metafisico.

Desideri di evaporazione

Il merito più grande dello stile di Scibona è quello di riuscire a rispettare il desiderio di obliterazione del sé che percorre gran parte del testo. Dopo dozzine di pagine su ciò che i suoi personaggi fanno e subiscono, alla fine del libro, sentiamo di sapere ancora poco di loro. Non è un difetto dello stile o dello storytelling; al contrario, è la misura tangibile della sua efficacia. È il modo in cui lo scrittore si sforza di rispettare quel desiderio di «evaporazione umana» che, come ha scritto Poirier, è destinato a non potersi mai pienamente realizzare perché è un artificio dello stile, una finzione retorica che presuppone l’esistenza di quello stesso soggetto che si vorrebbe cancellare.