Qualcuno volò sul nido del cuculo poteva sembrare un oggetto sapientemente vintage già allora, a metà degli anni settanta del secolo scorso, quando il film di Miloš Forman deflagrava grazie soprattutto alla performance mostruosa di Jack Nicholson. Anni in cui era ancora viva la critica all’istituzione psichiatrica e allo stesso concetto di malattia mentale, e da noi produceva frutti il diffondersi delle esperienze nate dal gruppo di Basaglia a Gorizia. Sicché si poteva sentire ormai lontana, nel tempo come nello spazio, una narrazione intessuta intorno a cruenti pratiche terapeutiche d’altri tempi e luoghi, quali quelle che nel romanzo di Ken Kesey pubblicato nel 1962 riducevano il protagonista a una sorta di vita vegetativa (della lobotomia aveva fatto le spese anche una delle sorelle di John Kennedy, il futuro presidente degli Stati uniti, ritenuta dal patriarca della famiglia troppo esuberante sessualmente). E infatti il film di Forman rimandava non tanto alla rivoluzione dell’antipsichiatria di Laing e Cooper, quanto piuttosto a una rivolta individuale, a una «impossibilità di essere normale» di cui anche Hollywood si era poi fatta interprete sulla scia della contestazione studentesca del decennio precedente. Senza intaccare la distanza che sta fra rivolta e rivoluzione.

E oggi, cosa resta di quella narrazione? Una grande storia, risponde Maurizio de Giovanni, autore dell’adattamento su cui si basa lo spettacolo che ha debuttato al teatro Bellini per la regia di Alessandro Gassmann (repliche fino a domani 19 aprile). Messo da parte il film, lo scrittore napoletano è partito dalla versione teatrale del romanzo firmata da Dale Wasserman, a Broadway, nella traduzione di Giovanni Lombardo Radice, portando la vicenda su un terreno a noi più familiare ma mantenendo una consapevole distanza di sicurezza.

Qui siamo nel 1982 nell’ospedale psichiatrico di Aversa, uno dei manicomi criminali più tristemente noti del paese, che la scena di Gianluca Amodio trasfigura in un padiglione vetrato dal grigiore délabré. Ma questo prolungato slittamento del testo da una mano all’altra si dilata anche sulla scena, dove gli interpreti a loro volta lo traducono in una loro lingua scenica, forzando le coloriture regionali. È soprattutto il protagonista, Daniele Russo, a dare l’impronta di una teatralità molto connotata di napoletanità alla passione cui va incontro il suo personaggio, finito lì nella speranza di sfuggire a qualche mese di carcere.

L’anno in cui è ambientata la vicenda non è casuale. È l’anno dei campionati mondiali di Spagna, e sarà proprio il divieto di guardare in televisione la finale a dare il via a una surreale rivolta dei reclusi che s’inventano giocatori e telecronisti della partita che non possono vedere, mentre al suo culmine appare l’immagine ingigantita dell’urlo di Tardelli, icona di quella giornata, a riempire l’intero boccascena. Più che alla grande storia, e reso un formale omaggio all’impegno civile, la regia di Alessandro Gassmann sembra interessata al suo aspetto onirico, molto intimo, tradotto visivamente in un moltiplicarsi, sul velatino teso a filo di proscenio, di videografie che spezzano l’azione. Visioni di figure indecifrabili, l’apparizione di una grande mano… E del resto gli schizzi improvvisi di chitarra elettrica, le sottolineature musicali hanno anche l’effetto di gonfiare la teatralità dell’impianto.

È un sogno che sprofonda nell’incubo questo Qualcuno volò sul nido del cuculo. Al suo fondo, si direbbe, emerge un rapporto non risolto con il femminile, coniugato in troppi modi per essere casuale e moltiplicato anche in termini derisori attraverso le voci di un’apparente coralità, quasi fossero i personaggi un po’ ridicoli di un teatrino interiore, i cinque mattacchioni a cui è affidata la missione catartica di portare il protagonista verso una nuova coscienza di sé. Dove all’immagine della madre castratrice può contrapporsi solo quella della prostituta. Non per caso l’istituzione si identifica qui in una suora laica (sembra scolpita nel marmo Elisabetta Valgoi), dai tratti apertamente sadici nel vendicarsi di tutto ciò che possa evocare ai suoi occhi la sessualità negata.

Il protagonista va incontro alla sua fine annunciata, senza far nulla per opporvisi. Una morte simbolica, vien da dire. Giacché necessaria per liberare quell’altro più misterioso e gigantesco personaggio che per metà dello spettacolo abbiamo visto irrigidito in una catatonica immobilità (nell’originale era un nativo americano, qui un immigrato dal Sud America che ha perso il contatto con la terra madre), cui Gilberto Gliozzi dona intensità emotiva. In un finale ad effetto, vediamo crescere la sua ombra mentre imbraccia la statua della Madonna che l’altro non era stato in grado di sollevare, per spezzare con quella le barriere non solo materiali che l’imprigionavano.