Willie Evans per lo sport occidentale è un nome che dice poco o nulla. Quasi mai si è scritto di lui, così come mai è finito nel racconto di vicende con intrecci tra sport e razzismo. Ma la sua vicenda – Evans è morto qualche giorno fa a 79 anni per le conseguenze di una caduta, ha fatto poi sapere la moglie – è importante perché si va a collocare nello sport vissuto nei college statunitensi a fine anni Cinquanta. A qualche mese dall’inizio di un decennio che segnerà per sempre l’America e in cui il football si vedeva riservare un posto in prima fila. Ma c’è anche un altro lato della medaglia, una fotografia in bianco e nero sovrapponibile ai vari episodi di intolleranza che da settimane si susseguono nei college americani, da Harvard (sessismo su calciatrici da parte della squadra maschile) alla Columbia University (wrestler sospesi per linguaggio omofobico).

Evans era la stella della squadra della Buffalo University, ateneo che nel football per sei decenni e più aveva sempre recitato un ruolo minore. Mai una finale, nessun successo da segnalare o campione regalato ai professionisti. Sino al 1955, l’anno magico, un po’ come accaduto al Leicester di Claudio Ranieri che qualche mese fa sollevava la Premier League, nell’incredulità degli appassionati di calcio. Ecco, Buffalo come il Leicester sorprendeva in tutte le partite del campionato dei college. Senza superstar, con un pizzico di talento e tanto sudore, disciplina. Otto successi e una sola battuta d’arresto. Un’impresa che valeva ai Bulls – il soprannome della squadra di Buffalo – la Lambert Memorial Cup, parente del Lambert Trophy, ovvero il premio che va al miglior programma collegiale tra le piccole università della parte orientale degli Stati uniti.

Tanto, tantissimo per un Paese che viveva e vive della competizione tra piccoli atenei, a dividersi il tifo di città e contee mentre lo sport professionistico conquista le metropoli. E questo avveniva perché in panchina c’era un guru della palla ovale, Dick Offenhamer, sergente di ferro conosciuto nell’ambiente per la durezza dei suoi allenamenti. Ma soprattutto per la presenza di Evans, un candelotto di dinamite in mediana, nonostante pesasse non più di 82-83 chilogrammi, che sino a metà anni Cinquanta non sapeva neppure cosa fosse un touchdown, un intercetto, un placcaggio. Anzi, dopo il liceo aveva lavorato per un po’ come sarto, dopo aver visto svanire una borsa di studio a Purdue University.

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A Buffalo era stato allertato per correre in pista. E invece. Stella protagonista del Lambert Memorial Cup consegnato ai due capitani della squadra durante l’Ed Sullivan Show, programma di culto della tv americana (i Doors si esibirono nel 1967 con Light my Fire, prima di essere banditi a vita, la band si era impegnata con Sullivan a tagliare una parte del testo della canzone, che invece Jim Morrison cantò sul palco) per oltre 25 anni. Insomma, i Bulls erano divenuti famosi negli States. E grazie ai risultati sul campo avevano ottenuto un invito a un Bowl, al Tangerine Bowl, a Orlando, in Florida, contro Florida State. La partita più ambita in ambito college. Ma qui la storia cambia registro e la favola non concede l’happy end. Entrava infatti in campo un avversario quasi impossibile da battere ai tempi, l’Orlando High School Athletic Commission. Una commissione che controllava le attività dello stadio, da sempre contraria ad atleti bianchi e neri insieme in campo, come ormai consuetudine negli stati del nord degli Stati uniti.

Al sud no, la Florida era uno stato segregazionista. Come il Kentucky di Cassius Marcellus Clay, che entrerà in scena qualche tempo dopo. E quindi tra i Bulls invito esteso a tutti, tranne a Willie Evans e Mike Wilson, gli unici due afroamericani della rosa. La squadra decise di ribellarsi, di non abbassare la testa di fronte all’impossibile diktat razzista. Scelsero gli atleti: in Florida non ci andò nessuno, giocatori, allenatore, la banda che era pronta a partire. Boicottaggio. O tutti, o nessuno. Ma non servì perché la commissione della Florida non fece marcia indietro. A questa pagina di storia con il trionfo della tolleranza, dello spirito dello sport sulle illogiche conseguenze della discriminazione razziale si aggiungeva nello stesso anno un altro brutto episodio. Bill Russell, il dominatore della Nba con i Boston Celtics, 11 titoli in carriera, dalla Louisiana una colonna per la lotta all’intolleranza nello sport americano si vedeva negare una camera d’albergo in North Carolina. Era in viaggio con gli altri atleti più forti della Lega per la partita delle stelle. Per Russell niente camera. Era nero.

Otto anni dopo il rifiuto dei Buffalo Bulls a giocare senza Evans e Wilson in Florida, Muhammad Alì avrebbe detto di fronte ai giornalisti, a proposito del suo rifiuto che gli costò 3 anni di carcere e il ritiro della cintura di campione del mondo dei pesi massimi di andare a combattere per l’esercito americano in Vietnam: «Non ho mai litigato con i Vietcong. Non mi hanno mai chiamato negro. I veri nemici della mia gente sono qui». Evans, a differenza del fenomeno di Louisville, non avrebbe più avuto l’occasione della vita. Niente football tra i professionisti, un posto da istruttore sportivo nella scuola pubblica di Buffalo. Il razzismo gli aveva definitivamente rovinato un sogno.