Il timore in Thailandia è che le elezioni a lungo promesse possano slittare al 2018, mantenendo i militari al potere. A fine maggio, nel suo consueto discorso alla nazione, Prayuth Chan-ocha, a capo dell junta che guida il Paese dal golpe di tre anni fa, ha nuovamente sostenuto che il voto porterà al governo persone capaci di amministrare bene. In ogni caso chiunque vincerà, nei prossimi vent’anni dovrà attenersi al programma stilato dai militari, così come da loro stessi stabilito per legge per preservare nel tempo la propria influenza. «Perché non vogliono le elezioni, perché odiano il popolo? Non dobbiamo temere il giudizio dei cittadini».

Era il marzo 2006, Thaksin Shinawatra, da otto anni era l’uomo cardine della politica thailandese. A suo favore o contro di lui la Thailandia si è spaccata in fazioni, precipitando in una crisi costata un bagno di sangue e 90 morti nel centro della capitale Bangkok occupata per settimane dai suoi seguaci e per due volte l’intervento dell’esercito, con l’instaurazione di una giunta militare per scalzare lui e la sua famiglia dal potere. L’ultimo golpe fu nel 2014, quando il magnate ed ex premier si trovava già da anni in esilio autoimposto e le redini del governo erano in mano alla sorella Yingluck, da molti considerata un fantoccio guidata dal fratello, bersaglio anche lei di imponenti manifestazoni di piazza per chiederne le dimissioni. Fare sicuro e rilassato, camicia bianca sbottonata sui primi due bottoni del collo, nell’intervista del magnate e premier uscente risponde alle domande del mezzo busto, incalzando i propri critici.

Il mese successivo trionferà alle elezioni politiche boicottate dall’opposizione. Il risultato sarà annullato dalla Corte costituzionale e nel giro di pochi mesi, a settembre, i militari interverranno con un colpo di stato, l’ennesima incursione nella politica thailandese, costringendo Thaksin ad abbandonare il Paese.
Per gli studiosi Grigoris Markou e Phanuwat Lasote , il discorso politico portato avanti in vista del voto del 2006 «divide la società in due gruppi opposti». C’è un noi e ci sono gli altri. Da una parte il popolo composto dalla base senza privilegi, in gran parte formato da contadini. Dall’altra le élite, l’aristocrazia e i monarchici.

Da subito Thaksin ha cercato di costruire con la «povera gente» una sorta di unione di sentimenti, presentandosi come l’uomo di campagna arrivato in città per costruirsi una carriera.
Arrivato alla ribalta nel 1998, Thaksin ha da subito messo in campo politiche a sostegno di quelli che sarebbero diventati nel corso degli anni i suoi sostenitori. Quindi credito più semplice, sanità (tutte le cure per 30 baht al giorno), la prospettiva di migliorare le loro condizioni di vita. Nella realtà tutti in Thailandia hanno guardato alle aree rurali come sono lì a ricordare anche i programmi reali di sviluppo portati avanti negli anni della Guerra Fredda dal venerato sovrano Bhumobol Adulyadej, deceduto lo scorso ottobre dopo 70 anni di regno.

«Nelle prime fasi Thaksin era comunque ben visto anche tra la popolazione di Bangkok», spiega al manifesto Edoardo Siani, antropologo affiliato alla School of Oriental and African Studies di Londra. La prospettiva promessa ai cittadini della capitale era di trasformare la metropoli in una nuova Singapore, pulita e capace di attirare investitori, dopo la crisi finanziaria asiatica del 1997. «I militari stanno facendo quello che in passato aveva già fatto Thaksin», spiega ancora Siani riferendosi alle politiche di «decoro». Si pensi a quanto fatto nel 2003 in occasione dell’arrivo di George W. Bush e degli altri leader dell’Asia Pacific Economic Cooperation summit ospitato dalla Thailandia. Per l’occasione migliaia di mendicanti, senzatetto, prostitute e migranti cambogiani furono espulsi dalla città. Da premier si ingegnò inoltre per smantellare i mercatini che affollano la capitale. «Furono vietati i mercati del lunedì», prosegue Siani, «oggi invece la giunta punta a eliminarli dalle zone centrali».

A intaccare la sua immagine nel corso degli anni hanno però contribuito la crisi nel sud del paese, con centinaia di morti nelle regioni a maggioranza islamica, la lentezza nella gestione dell’aviaria, la lotta contro il narcotrafico che prese le sembianze di una guerra civile.

Ex poliziotto capace di costruire un impero economico nelle telecomunicazioni e presentarsi come estraneo ai circoli di palazzo, proprietario del Manchester City, inseguito da accuse di corruzione e di governare con uno stile autoritario, nell’immaginario italiano la figura di Thaksin si è spesso sovrapposta nelle cronache a quella di Silvio Berlusconi.
Se il cavaliere aveva e ha Forza Italia, il suo omologo si è appoggiato prima al Thai Rak Thai, che tradotto suona come i thailandesi amano in thailandesi.
Sciolto nel 2007 è stato sostituto dal Partito popolare. La terza incarnazione, che nel 2011 ha portato al governo Yingluck (sotto processo per uno schema di sostegno ai coltivatori di riso) fu invece il Pheu Thai Party, ossia il Partito per i thailandesi.

Il paese attende ora di capire quando andrà al voto. La road map si affianca alla nuova Costituzione, scritta dai militari e approvata lo scorso aprile, non prima che il nuovo re Maha Vajiralongkorn chiedesse alcune modifiche che gli concedono più poteri. Prima di stabilire una data bisognerà comunque varare 10 leggi che serviranno a delineare il sistema elettorale.
Come spiega The Diplomat, una volta ratificata dall’assemblea legislativa e firmate dal sovrano si aprirà una finestra di cinque mesi, nei quali sarà possibile andare ai seggi, pur con l’ombra lunga dell’influenza dei militari.
Alcuni osservatori mettono però in evidenza un potere sempre più frammentato. Al momento non è chiarissimo chi comandi veramente.

Nei tre anni dal golpe la capa repressiva si è comunque fatta più opprimente: censura, utilizzo della legge sulla lesa maestà, divieto di assembramenti e raduni. I partiti sono timidi.
Ma ogni venerdì il generale Prayuth Chan-ocha nel suo tradizionale messaggio dice di agire nell’interesse del popolo.