I sogni dei bambini svaniscono presto, quelli dei bambini ungheresi si infransero contro gli scogli del socialismo reale. Le cannonate di Puskás, che si infilavano nella porta avversaria e mandavano in visibilio il pubblico magiaro, furono poca cosa rispetto alle cannonate dei carri armati sovietici che 60 anni fa, nel 1956, risposero con il fuoco amico a un bisogno di libertà, lasciando morti sulle strade di Budapest, al tentativo di cambiamento e autonomia avviato dal gruppo dirigente del partito comunista ungherese rispetto all’Urss di Kruscev. Quelle cannonate disintegrarono anche la nazionale magiara, fortissima e imbattibile, che nel 1953 a Wembley umiliò gli inglesi 6 a 3, ritenuti fino ad allora i maestri del calcio.
Luigi Bolognini, giornalista di Repubblica, racconta in un bel libro La squadra spezzata (66than2nd, euro17) le prodezze calcistiche della Grande Ungheria e quei giorni di sessanta anni fa convulsi e pieni di speranza, attraverso gli occhi di Gàbor, un bambino di nove anni condotto dal padre Lajos su un prato verde, dove il Partito ha deciso che sorgerà il Nèpstadion, lo stadio di centomila posti, che farà da cornice alle prodezze calcistiche di Puskás e compagni.
SUPERIORITÀ SOCIALISTA
Quella squadra è espressione della superiorità socialista, sostiene il Partito, che chiama al lavoro volontario per costruire lo stadio e Gàbor tocca il mattone che passa tra migliaia di mani, comprese quelle dei giocatori della nazionale magiara. Grazie all’amicizia con Sàndor, il figlio del custode dello stadio, gli anni a venire di Gàbor saranno quelli che gli consentiranno di seguire da vicino le prodezze della nazionale, e un giorno fortunato in cui fa da raccattapalle l’idolo dei magiari Puskás nel tentativo di recuperare un pallone a bordo campo gli rotola addosso, un contatto che sarà motivo di vanto presso i compagni di giochi per lungo tempo. Gàbor milita nei giovani Pionieri del Partito, da bambino mastica parole chiare come dittatura del proletariato, piano quinquennale, il degrado dell’occidente borghese, frasi ripetute a cantilena che facevano tutt’uno con il grigiore dei palazzi e le facce dei dirigenti del partito, le restrizioni alimentari sempre più consistenti, ma c’era la nazionale di calcio e l’Honvèd, la squadra della capitale che faceva capo alla polizia e ai ranghi alti del Partito, che coprivano il grigiore del socialismo reale.
43 VITTORIE
Le radiocronache della nazionale di calcio sono seguite con un silenzio religioso da Gàbor, che si ritrova a commentarle con il suo amico Sàndor, ma quella nazionale è forte, imbattibile, tanto che dal 4 giugno del 1950 al 27 novembre del 1955 su 50 partite disputate collezionerà 43 vittorie, 6 pareggi e una sola sconfitta, la più cocente, subìta nella finale di Coppa Rimet nel 1954 ad opera della Germania, che vinse i mondiali di calcio, i primi ai quali fu ammessa dopo la fine della seconda guerra mondiale. Alla guida della nazionale tedesca c’era Sepp Herberger, vice di Otto Nerz, allenatore che ai Giochi olimpici di Berlino nel 1936 guidava la nazionale hitleriana. Sepp Herberger fu uno dei tanti che passò disinvoltamente dalle croci uncinate care ai nazisti, fino alla guida della nazionale che vinse i mondiali del 1954. Quella sconfitta, rimediata in una partita assai controversa, nel corso della quale la nazionale ungherese chiuse il primo tempo in vantaggio con un secco 2 a 0, salvo farsi raggiungere e poi superare con un 3 a 2, ebbe un epilogo drammatico per milioni di magiari, visto che Puskás aveva segnato il gol del 3 a 3, prima convalidato e poi annullato. Fu l’inizio della fine, la squadra che indossava la maglia rossa con falce e martello non dava più così tanta gioia da coprire con le sue vittorie le difficili condizioni del popolo magiaro, che secondo il Partito marciava a gonfie vele verso il socialismo e la dittatura del proletariato.
PROTESTE DI PIAZZA
Gàbor, ormai studente universitario, in quei giorni convulsi della rivoluzione pacifica ungherese, non privo di sensi di colpa, si unì alle proteste di piazza contro quei dirigenti del Partito, che avevano portato il paese magiaro al disastro economico e sociale: «Gàbor si sentì per un momento Nemecsek, il piccolo soldato avventuroso che sembrava aver rinnegato la causa e invece era stato il più fedele e leale di tutti. Ho tradito il Partito, forse, pensò, ma non ho tradito me stesso, e Sàndor, e Puskás, e i miei sogni». Quei campioni, che avevano dato vita alla scuola ungherese, la più temuta con quella austriaca, forti di una tournée all’estero proprio in quei giorni di ribellione soffocati nel sangue, non tornarono in patria, si accasarono presso squadre europee di fama, come Puskás al Real Madrid, ed ebbero una lunga vita calcistica ben retribuita. In patria salvo due calciatori che fecero ritorno, furono bollati come «traditori del popolo». Bolognini ha avuto il merito di condurci con il pallone tra i carri armati sovietici che sessanta anni fa a Budapest sparavano sugli operai, i contadini e gli studenti che chiedevano libertà.