Félicité era uno dei titoli più attesi, ritorno nel concorso della Berlinale del regista, Alain Gomis, parigino di origine senegalese, che qui nel 2012 aveva presentato Tey scelto dal Senegal per la corsa all’Oscar del miglior film straniero. Ritratto di una donna (dell’Africa?). Il nome del titolo è quello di una donna (la molto brava Vero Ishanda Beya), cantante nei bar, che conosciamo all’inizio del film piena di vita, con gusto di ballare, cantare, divertirsi in lunghe nottate omaggiate nel finale con le parole dell’Inno alla notte di Novalis …

Ha un figlio Félicité, adolescente e un marito che ha abbandonato tanti anni prima. Non ha uomini, vive da sola, di lei dicono che ha è troppo spigolosa, che ha un caratteraccio, qualche occhiata malevola, qualche commento non proprio buono, anche il figlio in fondo la giudica. Poi un giorno il ragazzo ha un incidente di motorino, lei deve trovare i soldi per operarlo anche se sarà inutile, e questa donna fiera è costretta come tanti nel suo Paese a piegarsi, umiliarsi, a scontrarsi coi conflitti di un’Africa ricca la cui ricchezza però è diritto per pochi, corrotta, devastata da governi rapaci e complici nel saccheggio millenario che impedisce a i suoi abitanti di essere un po’ meno stremati. Finito lì come altrove il sogno di una rivolta, lei dovrà accordarsi a ciò che la circonda.

Gomis costruisce il film per spogliare (e con una vaga aura fastidiosa di moralismo) il suo personaggio dell’energia iniziale nel suo graduale avanzamento verso quella che dovrebbe essere una diversa consapevolezza di sé, degli altri, del mondo… Eppure Félicité l’avevano chiamata così perché da bimba aveva rischiato di morire poi era risorta. In questa sua seconda «rinascita», figurata nei sogni di se stessa che si immerge nell’acqua perde la sua bellezza, le treccine, l’irriverenza per apparire più grigia, quasi mesta.

Quale sarà la soluzione se non trovare un uomo al suo fianco col quale all’improvviso tutto va meglio, almeno rispetto al mondo si accorda una pace sul caos, così simile a quella della musica colta che prova un coro africano, contrapposta allo scatenamento dell’african sound…

Intorno Kinshasa, la sua violenza e le contraddizioni contemporanee di cui l’Africa, nella sfacciata alternanza di miseria e ricchezza, sembra essere il laboratorio avanzato che la macchina da presa di Gomis cattura non senza qualche compiacimento formale. C’è però qualcosa di irritante in questo suo sguardo, a cominciare appunto dalla percezione che sia contro il suo personaggio, chiuso nell’itinerario più banale del rapporto a due, dell’uomo che comunque è sempre meglio avere in casa anche se come questo è ubriacone (ma tenero) e non sa riparare i frigoriferi.

Un neoconformismo che cancella ogni ambizione (seppure per carità velato di tenerezza e di una qualche complicità) e che oggi suona parecchio funesto.