Il muro «tradizionale», quello che da lungo tempo segna il confine fra Italia e Austria lungo il Passo del Brennero, non è che una bassa staccionata di legno, puntellata in tutta la sua estensione da scalette di tre gradini per facilitarne il passaggio. Lo mostrano al regista Nikolaus Geyrhalter due escursionisti tirolesi in The Border Fence, il documentario vincitore del Premio della giuria della sessantasettesima edizione del Trento Film Festival, che si conclude oggi.

La «recinzione» citata dal titolo non è quella staccionata, ma il vero e proprio muro che il governo austriaco intendeva costruire al confine con l’Italia nel 2016, all’indomani della chiusura della rotta balcanica intrapresa dai migranti provenienti dal Medio Oriente, e in particolare dalla Siria lacerata dalla guerra.

Allora, sosteneva il governo in cui l’attuale cancelliere di estrema destra Sebastian Kurz figurava come ministro degli esteri, un flusso inarrestabile di rifugiati avrebbe cambiato rotta e si sarebbe riversato in Austria dall’Italia. I telegiornali accesi nelle case degli abitanti di quelle zone immerse nella natura delle Alpi sono carichi di allarmismo, una conferenza stampa della polizia annuncia le misure che il governo intende adottare per frenare questa fiumana di persone – a costo di rivedere la libera circolazione prevista da Schengen.

LA RECINZIONE – una rete metallica, non di filo spinato precisano i poliziotti quasi a voler conferire un’aria di mite saggezza al progetto – sarà lunga quasi 400 metri. Per le strade i manifestanti protestano contro quella che sarebbe una pietra tombale sul progetto di un’Europa senza confini. E il regista incontra gli abitanti del Passo dalla parte dell’Austria, alla scoperta delle loro paure, convinzioni e della loro percezione di una vicenda che le immagini stesse denunciano come surreale: nel giro di due anni di riprese nessuna «orda» si riversa oltre il confine, il prefabbricato eretto in gran fretta per schedare i migranti in arrivo, gestire le domande di asilo e rimandare i «clandestini» in Italia è deserto, il bar dove risuonano le previsioni apocalittiche di Kurz in tv è popolato solo da qualche avventore del posto.

Nel 2018, la recinzione è ancora arrotolata in un container – «ispezioniamo regolarmente il suo stato» dice un poliziotto – ma sono in molti in Tirolo a scandire i timori che si rispecchiano in questi anni in tutta Europa: un fantomatico «Stato misto» del futuro in cui si dissolverebbe l’identità delle nazioni europee, l’Islam, l’Altro – di cui l’esperienza è poca.

È IL CONTRASTO fra quella placida staccionata di legno mostrata dagli escursionisti e i carri armati che arrivano da Innsbruck per far fronte a un’invasione a racchiudere il senso profondo del film di Geyrhalter, che si interroga sul futuro dell’Europa in un’epoca oscura, di propaganda, paure costruite ad arte e sogni infranti.
Dall’altra parte dell’oceano, un altro film della selezione del Trento Film Festival ruota anch’esso intorno a un sogno infranto a partire da una montagna, Mount Kennedy, la cima dello Yukon così chiamata dai canadesi in omaggio al presidente assassinato dei vicini Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.

Return to Mount Kennedy di Eric Becker segue il percorso a 50 anni di distanza dei figli di Robert Kennedy – Chris – e dello scalatore Jim Whitaker (il primo americano a scalare l’Everest) – Bobby – sulle orme dei loro padri verso la vetta del monte. Una sfida attraverso la quale raccontare l’amicizia dei loro padri, interrotta prematuramente dall’omicidio di Robert Kennedy, e indirettamente un’epoca conclusa della storia statunitense: non solo quella della presidenza Kennedy ma anche della scena grunge di Seattle – Bobby Whitaker in gioventù era l’inseparabile roadie dei Mudhoney – gli stessi anni e la stessa città dove era germogliato il movimento no global.

 

A vincere il primo premio del concorso di Trento, la Genziana d’oro, è invece un documentario ambientato sulle Alpi francesi, La Grand Messe di Valéry Rosier e Méryl Fortunat-Rossi, che «ribalta» la prospettiva delle riprese televisive del Tour de France e porta lo spettatore fra quei tifosi che solitamente fanno da sfondo ai ciclisti. I più appassionati, tutti anziani, già dieci giorni prima il passaggio del tour sostano con i loro camper sul Col d’Izoard – quello dove la canzone di Gino Paoli immortalava il passaggio di Fausto Coppi, la cui effigie impressa sul monte viene osservata con nostalgia, insieme a quella di Louison Bobet, dai protagonisti.

MA IL TOUR, il ciclismo, il desiderio di una signora di venire inquadrata dalle telecamere e vista dalla cugina in tv, non è appunto che lo sfondo: il pretesto del documentario quanto del gruppo di anziani amici accomunati dalla passione per quei pochi metri su cui veder passare brevemente gli infaticabili scalatori su due ruote. Un rituale coltivato con amore grazie al quale stare insieme, trascorrere il tempo, divertirsi, insultare gli snob parigini, ricordare il passato ed esorcizzare la morte stessa con la promessa di ritrovarsi l’anno dopo, al prossimo Tour de France.