Una passeggiata al mercato di Porta Palazzo a Torino. È bastata questa ad Abir Shili, 27enne tunisina, per capire che l’Italia non è dorata come sembrava dalle immagini che vedeva da bambina su Rai 1, che fu trasmessa in Tunisia fino alla fine del 2010. «Mentre smontavano le bancarelle vidi un signore marocchino raccogliere il cibo rimasto a terra per portarlo a casa. Rimasi scioccata perché non pensavo di vedere queste scene anche qui», spiega questa giovane originaria di Sfax, 300 km a sud-est di Tunisi.

Secondo lei, quest’immagine del 2016, quando si trasferì per un anno in Piemonte grazie a una borsa di studio, non sarebbe stata così spiazzante se a quel tempo avesse già fatto gli studi di italianistica. Shili ha cominciato solo l’anno successivo la facoltà di Lingua, letteratura e civiltà italiana all’Università de La Manouba di Tunisi, dove ha capito che «ci sono differenze tra quello che sognamo e ciò che esiste veramente».

ANCHE Abou El Alaa Dabboussi ha rivisto la sua idea dell’Italia. È un ex studente della stessa facoltà, oggi 30enne e insegnante di italiano in un liceo di Tunisi. Si ricorda quando da ragazzo gli italiani dalla Sardegna venivano a comprare il corallo a Tabarka, la sua città costiera del nord-ovest tunisino. «Mi davano l’idea di un mondo lontano, felice ed esotico, di cui non capivo quasi nulla nonostante i miei cugini vi fossero emigrati», spiega accusandone la mancanza di comunicazione. «Sapevo solo se avevano ottenuto i documenti, trovato lavoro o comprato una macchina».
Nel corso degli anni Dabboussi ha ridimensionato l’esotismo delle sue memorie adolescenziali sull’italianità, ma di quest’ultima «solo all’università ne ho compreso la dimensione concreta», spiega lui. Come quando ha studiato letteratura comparata, ad esempio analizzando «Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio», libro del 2006 di Amara Lakhous, scrittore algerino naturalizzato italiano. I protagonisti del racconto, condomini di varie culture di una palazzina romana, offrono agli inquirenti la propria versione dei fatti dell’omicidio di un uomo trovato morto nell’ascensore. Le differenti ricostruzioni di ciascuno evidenziano stereotipi e pregiudizi verso l’altro, che faticano ad accettare. «Ho capito che la società italiana è complessa, a volte polarizzata, non sempre così diversa da quella tunisina, anche se è più conservatrice», spiega l’insegnante.

 

 

La facoltà de La Manouba è l’unica nel Paese che offre una formazione magistrale di italianistica e dal 2016 ne fa parte anche la Cattedra Sicilia, la prima al mondo di lingua e cultura sicula. «Sapevo che ci fossero molti tunisini in Italia, ma non che i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo fossero così stretti», spiega Shili che l’ha frequentata.

HA SCOPERTO che Mazara del Vallo, nel trapanese, è casa della più identitaria comunità tunisina d’Italia. Ora sa che qui, anche per i tunisini stabilitisi un tempo per lavorare nella pesca, il progetto migratorio di fare fortuna e tornare in patria è fallito. «Adesso capisco perché a Mahdia – cittadina costiera a 200 km sud-est di Tunisi – c’è un quartiere soprannominato “Mazara”, dove ci sono le case degli emigrati in Italia».
Shili, Dabboussi e tanti altri come loro non cadono dalle nuvole. Non provengono dalle zone più remote della Tunisia, sono connessi in rete e sono di famiglie mediamente benestanti. Sanno che oggi, per molti tunisini, l’Italia è solo un ponte per raggiungere altre mete in Europa. E hanno anche studiato italiano al liceo, quando lo hanno scelto come terza lingua al penultimo anno.

«Perché è considerato facile, come un francese maccheronico. In realtà affascina molti ragazzi», spiega Mouin Camano, 25 anni, archivista dell’Istituto culturale Dante Alighieri di Tunisi e laurendo di italianistica a La Manouba. «Ma ai giovani mancano vere occasioni di confronto e dell’Italia vedono solo il volto dei professori che gli insegnano la lingua a scuola».

Camano, che viene da Gafsa, nell’entroterra tunisino, non aveva idea dell’esistenza dei dialetti italiani e delle differenze nord-sud dello Stivale, tanto da essere stata «una scoperta speciale» durante gli studi. E ripensa a quando un suo compaesano sbarcato a Lampedusa, insieme ad algerini e migranti di altre nazionalità, gli raccontò di essere stato tra i primi prelevati dalla polizia per il rimpatrio. Ora avrebbe potuto spiegargli che non si trattava di ostilità verso i tunisini, ma degli accordi bilaterali Italia-Tunisia.

Eppure «spesso è più corretta la percezione che hanno i tunisini dell’Italia piuttosto che quella che hanno gli italiani della Tunisia, compresi alcuni della classe medio-alta», spiega Alfonso Campisi, professore ordinario di filologia romanza all’Università de La Manouba, trapanese e fondatore della Cattedra Sicilia. «Una certa intellighènzia nostrana a volte ha persino paragonato la Tunisia agli scenari libici».

Anche se a La Manouba le materie di italianistica non vertono in primis sull’attualità, «gli spunti di riflessione sul presente sono ampi e il corso di cultura siciliana, in particolare, è uno dei pochi del panorama accademico locale che fotografa la realtà italiana di oggi».
Camano spera di vederla di persona: «l’Università di Bari mi ha offerto una borsa di studio per un corso di italiano di un mese, a settembre. Chissà se riuscirò ad andarci». Ma le speranze muoiono spesso all’ambasciata italiana di Tunisi, dove studenti, professori e lavoratori vedono rifiutarsi il visto pur avendone i requisiti. E molti vanno in Francia o persino in Ungheria a studiare italiano.