Il presepe napoletano ha un personaggio che, nella trepida e composta animazione della scena, sta un po’ per i fatti suoi. Si chiama Benino, dorme in cima alla rappresentazione, è un pastore. Forse, si dice, è lui che sta sognando la natività che si dissolverà al suo risveglio.
Il tema del sonno dei pastori è evangelico (Luca, 2,8-20): svegliati dagli angeli col «venite adoremus», vanno appunto ad adorare il bambino miracoloso; Benino invece continua a dormire mentre gli altri sono già alla grotta (o capanna). Michele Rak, critico letterario, esperto di fiabe, teorico delle dinamiche delle culture e della funzione dei linguaggi d’arte nel mutamento sociale, interpellato sul sonno ostinato di costui spiega che «Benino è il pastore addormentato nella prima scena della Cantata dei pastori rappresentata in varie forme per tre secoli a Natale come un episodio della lotta del Bene contro il Male (Andrea Perrucci 1698 Il Vero Lume tra l’Ombre, ovvero la Spelonca Arricchita per la Nascita del Verbo Umanato). È il tema del sogno che percorre tutto il Seicento, da Pedro Calderon de la Barca (La vita è sogno 1635). Il sogno, che è così prossimo alla Morte, è lo spazio di un’altra realtà, più felice. Benino sogna un mondo dove non esiste la povertà («nel sogno ero ricco e felice; e poi, destino crudele, svegliandomi mi ritrovo afflitto e povero!»). Questo altro mondo è quello della fiaba e della ricchezza per tutti – («O padre mio, mi sembrava che si aprisse il cielo e che, da lassù, piovesse un misto di argento e d’oro. Vedevo la terra diventare oro ed i prati smeraldi;i fiori erano pietre preziose, le gocce di brina erano perle e le colline diamanti;le acque dei ruscelli erano d’argento e dalle viti pendevano grappoli di topazi e di rubini;gli alberi producevano gemme… Il mondo era tutto un tesoro! E mentre, estasiato, ammiravo tante ricchezze, volgendo lo sguardo ad est, verso la buia grotta di Betlemme, mi pareva che sorgesse di là una luce immensa, grande come cento soli!E, mentre sorgeva quella luce, sento una voce…». Quando gli viene nominata Napoli non sa dove sia, perché in quel momento è una città complessa e violenta («Napoli? Non ho mai sentito nominare questo paese… È in questo mondo o fuori?).
Nel 1793 viene pubblicata la poi celebre Tu scendi dalle stelle o Re del Cielo, e l’altrettanto celebre «Quanno nascette Ninno a Bettalemme/ Era nott’e pareva miezo jiuorno /L’Angelo avvisa i pastori / Guardavano le ppecore i Pasture / Quando sono vicini alla grotta cantano e invocano il Sonno per far addormentare il Bambino/Viene Suonno da lo Cielo / Viene e adduorme sso Nennillo».

Il sogno è il segnale dell’Altro Mondo che inizia con la nascita del Cristo, il mondo altro sognato dai poveri nei termini fiabeschi del castello di pietre preziose ideato nel Seicento e proiezione dell’altrettanto sognato paese di Cuccagna dove la penuria è finalmente annullata. Un po’ Aladino nella, di nuovo, grotta favolosa.

ALTRA lettura del pastorello addormentato è quella che collega il presepe e Benino al sogno d’Arcadia, ai riti iniziatici connessi al dio Pan che, come i pastori, è vestito di pelli, legato alla Terra e testimone di epifanie celesti.
Esiste un libro, della AM&D Edizioni, che indaga il sonno dei pastori: non quelli di Betlemme, ma della Barbagia e di altre regioni sarde; lo ha scritto Bachisio Bandinu, in italiano e in sardo, alla fine degli anni Novanta e meriterebbe una ristampa. Si intitola Visiones, apparizioni oniriche che molto hanno a che fare con al di là, spiriti e spiritualità. Anche in Sardegna come in Palestina i pastori sognano e vedono la trascendenza.
Giorgio Manganelli nel suo crudele, bellissimo Il Presepio, definisce la natività un’allucinazione, la grotta entrata e uscita da un Ade, gli Angeli come pipistrelli metamorfosizzati a guardia del mistero, dove i proletarissimi pastori sono agenti segreti dell’ombra, vicini alle capre che custodiscono (di nuovo Pan), certamente peccatori, tecnici specializzati. Qualcosa di non dissimile dagli elettricisti fuori scena, attenti a che tutti gli effetti speciali funzionino come si conviene.
E le luci si sa, nei presepi e nei Natali molto bui come questo del 2020, hanno moltissima importanza, anche a non voler abbracciare la tesi di Manganelli che teorizza l’infelicità natalizia, il suo connaturato, inevitabile, elaborato, ingegnoso, maestoso malessere.
Un’angoscia che somiglia a quella che percorre le visiones raccolte da Bandinu, i sogni su cui vigila il Garriatore, sorta di Orco col compito di «garriare» i dormienti, caricandoli di pesi di angoscia e soffocamento. Quelli dei pastori sardi sono sogni intessuti di elementi primigeni e legati alla loro terra, anche se, per ammissione dell’autore, le scene oniriche sono senza patria e terra e ricalcano i miti e le paure di tutto il genere umano.

IN PARTICOLARE le visioni di questa raccolta sono vissute e restituite da chi ne è stato visitato con finalità oracolari, fermo restando che raccontare sogni, per i pastori sardi, è ritenuta una pazzia e il dono di chi sa interpretarli un castigo, come quello inflitto dagli Dei ai preveggenti. Sono sogni percorsi da figure di familiari, dal villaggio, dalla casa, dal gregge, dai boschi e dalle loro insidie, da acqua, pietre, gole. Presepi a loro volta. La maggior parte dei simboli è connessa alla sventura: è male sognare bambini, mogli, fuoco, vacche, sabbia, lana. Funestissimo lo specchio, ché l’immagine riflessa e in qualunque modo riprodotta terrorizza i pastori come pure i nativi americani, per il timore che con la rappresentazione di sé porti via l’anima, e molto verrebbe da riflettere sul tema in una stagione dominata da selfie e webinar, dove si vive incorniciati in schermi rettangolari e ci si vede affiorare su zoom come sulla superfici di bacili celtici divinatori.

FANNO ECCEZIONE il pane, icona cara anche ai sardi Maria Lai e Antonio Marras, e il vento capace di fare pulizia ma anche di invertire le sillabe, scombinare le parole, far nascere la battuta di spirito, l’ambivalenza, l’enigma. «Il fantasma del vento – dice Bachisio Bandinu – nella cultura sarda ha un profondo legame col tempo: annuncia un tempo di avvento». Quello inviso a Manganelli, quello dove siamo immersi: pienissimo di luci e di qualche presepe, dove si parla di gregge in relazione all’immunità, che segna la fine del memorabile anno bisesto targato Duemila/venti, mica uno solo.