Quando è ancora un bimbo, con tanti capelli, un numero 10 sulla maglietta e un talento già smisurato, Diego Armando Maradona viene intervistato da una tv in un campetto di periferia e, dopo infiniti palleggi, dice «io ho due sogni, il primo è giocare in un mondiale, il secondo vincerlo».

IL PRIMO sogno si avvera nel 1982 in Spagna. Ma l’Argentina viene eliminata dall’Italia che poi vincerà il titolo. Il secondo sogno si avvera nel 1986 in Messico e assume i contorni dell’epica. Dopo essersi qualificata e avere eliminato agli ottavi l’Uruguay, ai quarti arriva l’Inghilterra. Le ruggini sono dovute al recente conflitto delle Malvine, Falkland per gli inglesi, con la Thatcher prima ministra che ha sconfitto i latinos e festeggiato oltremodo in patria. Il primo tempo finisce zero a zero. Le squadre tornano in campo e pochi minuti dopo Diego Armando confeziona uno dei goal che rimangono nella storia del calcio: parte da centrocampo, si schiuma un esercito di difensori e segna. Ancora oggi un goal studiato nelle scuole calcio e riproposto all’infinito in tv. Ma non è finita qui.

Non sono passati cinque minuti che Diego segna, apparentemente di testa, in realtà di mano, ma non se ne accorge nessuno, la mano sinistra di dio porta l’Argentina in semifinale (2 a 1, inutile il goal di Lineker nel finale). Diego rifila altre due pappine al Belgio e accompagna i suoi al trionfo, 3 a 2, contro la Germania. Missione compiuta, il sogno del bimbo che sul campetto polveroso, in un bianco e nero d’altri tempi, veniva intervistato perché tutti sapevano che avrebbe fatto faville, è diventato realtà.

QUELLO TRA DIEGO e il mondiale è un rapporto particolare. Quattro anni dopo è Italia ’90, Notti magiche, Schillaci stralunato, il sogno questa volta è degli italiani. Solo che, in semifinale l’orgoglio nazionale viene sbeffeggiato dagli argentini che si qualificano per la finale ai calci di rigore. L’otto luglio è finale a Roma, ancora contro i tedeschi. Solo che il clima è spaventoso.
Roma è ricoperta di scritte e striscioni che insultano l’Argentina in generale e Maradona in particolare, entrambi rei soltanto di avere infranto il sogno tricolore.

Osvaldo Soriano, argentino, magnifica persona, grande scrittore e cantore di calcio, che all’epoca seguiva il campionato mondiale dell’albiceleste per il manifesto, partecipa da spettatore-giornalista alla finale, ma un po’ per celia, un po’ per non morire, dice a tutti di essere uruguaiano. Perché cercare guai, inutilmente. Quando le squadre scendono in campo e parte l’inno argentino è una salva di fischi, ululati e improperi. Diego replica «Hijos de puta», colorito, ma comprensibile. Finirà 1 a 0 per la Germania con un rigore dubbio e la certezza della finale più brutta della storia dei mondiali. Dei mondiali Usa del ’94, non vale la pena parlare, Diego segna contro la Grecia, azione fantastica, va verso la telecamera e urla. Ma è una smorfia. Finirà squalificato per doping.

CHI HA VISTO giocare Maradona ha capito cosa significhi essere dei geni nel proprio ambito. E lui, pieno di contraddizioni, è stato un genio che, senza lampada, ha illuminato il mondo del calcio e non solo. Mondiale.