Un gesto creativo che ha atteso «ottantacinque» anni per realizzarsi, così dice Alexander Jodorowsky del suo La danza della realtà da ieri nelle fortunate sale che lo ospitano in un tour lungo l’Italia. È stata lunga la sua pausa dal cinema. Dall’ultimo film, Il ladro dell’arcobaleno è passato un intervallo di ventidue anni, non certo voluto e che lo mette quasi in agitazione, lui così accogliente nei confronti degli eventi, ma piuttosto irritabile per quanto riguarda l’industria del cinema che non tollera i film «d’arte». Infatti ha accumulato i soldi, dice, e se lo è prodotto da solo (con Pathé).

Lo presenta a Roma dopo essere stato a Bari e oggi sarà alla cineteca di Bologna, quindi all’Alfieri di Firenze per tre settimane, poi Genova, Napoli, Sicilia, distribuito da Garabombo (per richiedere il film in sala: ladanzadellarealtafilm@gmail.com).

Veicolato per lo più come film autobiografico, La danza della realtà è decisamente un film poetico che diventa via via sempre più politico, fino ad evidenziare una simbiosi tra il padre del piccolo protagonista e il suo paese, il Cile: per lo più abitato da immigrati di origine europea, terribilmente macho, forte e sicuro di sé, attraversato da varie fasi di dittatura e come rinato da situazioni che sembravano annientarlo. Il regista racconta se stesso bambino nel paese minerario del nord dove nacque, Tocopilla (e che lasciò nel ’53 per Parigi), e del rapporto conflittuale con il padre che lo voleva un vero uomo coraggioso senza debolezze, capace di resistere al dolore (interpreta il padre suo figlio Brontis, con inaspettati risvolti emotivi sul set) ed evoca la presenza amorevole della madre, sottomessa al marito ma capace di inaspettate risorse, una forza della natura, come una dea, una papessa. Poiché di Jodorowsky si tratta, un regista al confine con la magia (o «psicomagia» trattandosi di lui) ci troviamo in un universo che slitta nel fantastico, non fosse che trattandosi del Cile potrebbe anche essere pura realtà, come quelle onde che si ergono come un muro, i personaggi da circo, i santi e i peccatori, dove basta un piccolo salto per salire dalle Ande al cielo.

E quando arriva il personaggio senza mani, il minatore mutilato, si pensa subito che stia citando Victor Jara, invece c’era proprio uno così in paese, chiamato «el moscardon» che si muoveva come una mosca muovendo solo i moncherini e che si avvicinava al negozio del padre scacciato malamente perché poteva portare malattie pericolose: «queste persone le ho viste, dice il regista, lavoravano nelle miniere e la dinamite faceva saltare anche braccia e gambe, si ubriacavano con l’alcol delle lampade, impazzivano. Il paese li tollerava perché c’era la crisi, ma potevano portare il tifo». E della crisi del ’29, simile alle crisi di ogni tempo, possiamo vedere scene maestose e struggenti. Racconta delle sue scelte di lavoro, degli aneddoti lontani nel tempo (il giorno che Castaneda arrivò al suo albergo, il giorno che lo fece arrivare a cinquanta chilometri di distanza), riesce perfino a fare i tarocchi al volo, affabulatore non solo per immagini.

Inevitabile il ricordo dell’unico incontro con Fellini che lo invitò sul set in esterno notte della Voce della luna («Jodorowsky!» «Papà!» e a quel punto cadde una pioggia scrosciante, tutti fuggirono via e non ci siamo più visti). Inutile fare paragoni con Amarcord, un film dolce e malinconico, dice: «Fellini mostra amore per il passato, malinconia, l’ingenuità del mondo, pensa a un passato sacro che non cambia. Per me il passato si può trasformare, estraggo il passato e lo metto nel presente, gli dò quello che non ho visto con gli occhi da bambino: mio padre stalinista sempre parlava di uccidere il dittatore e non lo fece, mia madre era una donna umiliata e la faccio diventare forte, desiderava essere una cantante lirica e la faccio cantare per tutto il film. Se questi cambiamenti avessi potuto farli realmente non avrei sofferto quello che ho sofferto».

Infatti smorza o esalta a seconda dei casi i simboli con il canto, il canto con la sorpresa, lo struggimento con lo sberleffo: una ruota inarrestabile. E si tiene lontano dalle star che reclamano i produttori: Peter O’Toole era insopportabile, rifiutò Anthony Quinn per il suo famoso Dune mai fatto. «Se hai bisogno di un santo, devi trovare un santo, un attore non può farlo. Il me stesso diciassettenne del mio prossimo film lo farà mio nipote». E i ruoli che mancavano li ha trovati su twitter, qualcuno in cambio di una seduta di tarocchi.