Filantropo, musulmano, socialista. Schivo e poco incline alla pubblicità. Chi era l’ottuagenario pachistano che voleva trasformare l’inferno di Karachi in una speranza per gli ammalati poveri

Da un paio di giorni, due persone di Karachi possono vedere il mondo. Con gli occhi di un vecchio. Con gli occhi di Abdul Sattar Edhi, l’ottuagenario filantropo pachistano i cui funerali si sono svolti sabato scorso dopo una preghiera allo Stadio nazionale per un uomo che viene celebrato in Pakistan come un eroe e che fu candidato al Nobel dal padre di Malala Yusufzai, la giovane studentessa pachistana che i talebani tentarono di uccidere.

Morto venerdi scorso alla venerando età di 88 anni, avrebbe voluto donare tutti i suoi organi ma è stato possibile farlo solo con le sue cornee, che sono state trapiantate con successo al Sindh Institute of Urology and Transplant. Il suo corpo era provato e da anni i suoi reni non funzionavano più, costringendolo alla dialisi. Nel 2014 poi, una gang di malavitosi aveva fatto irruzione a casa sua e il vecchio era rimasto sotto choc: più per il fatto che qualcuno potesse rubare proprio a lui che non per lo spavento. Il paradosso è che la sua biografia, ricostruita con affetto dalla scrittrice pachistana Tehmina Durrani, si intitola «A Mirror to the Blind» (Uno specchio per il cieco). Ai ciechi alla fine ha donato i suoi occhi.

Ma chi era questo personaggio schivo, poco incline alle fanfare e di una levatura etica rara? Chi era questo filantropo umanitario di idee socialiste ma in grado di metter d’accordo destra e sinistra, mullah e popolino? Era così famoso e amato che persino i guerriglieri in turbante non hanno mai osato fare nulla alle sue strutture o al personaggio nel quale la luce del Corano, anziché in un’arma tagliente, era diventata una promessa per chi lo Stato non riesce ad assistere.

Quando andammo a trovarlo…

Quando andammo a trovarlo diversi anni fa in uno dei suoi centri a Karachi, la “sua” città, era già malato e non riceveva volentieri gli ospiti. Era schivo Edhi e non solo per via dell’età e di una malattia che se lo mangiava lentamente: era il suo carattere, e se si era fatto in quattro per far finanziare la Fondazione che porta il suo nome, non aveva certo il culto della sua personalità. Eppure, funerali come quelli di sabato – funerali di Stato in pompa magna – non si riservano a un uomo qualunque. Qualcuno dice che una celebrazione così si è vista solo alla morte di Ali Jinnah – il fondatore del Pakistan – o per il dittatore generale Zia ul-Haq, che invece della sua persona menava gran vanto. Chi era dunque Abdul Sattar Edhi?

Era un sognatore. In Pakistan al sistema sanitario pubblico – con visite e medicine gratuite – viene obtorto collo preferito il settore privato che può contare sull’80% dei pazienti. Gli ospedali pubblici infatti non ce la fanno a reggere la domanda e, tra ritardi e attese interminabili, chi può va altrove. Ma i costi non possono pagarli tutti, figurarsi chi vive in strada o in abitazioni di fortuna nei grandi slum urbani. Edhi pensa che forse di può provare a creare uno spazio privato ma per tutti. E’ un filantropo di idee socialiste, idee molto chiare, e ovviamente preferirebbe che fosse lo Stato a seguire le gente di cui si deve far carico lui. Ne era così convinto che, nel giugno scorso, aveva rifiutato l’offerta dell’ex presidente Asif Ali Zardari di farsi curare fuori dal Paese. Manco per sogno. Edhi gli spiegò che voleva essere curato in Pakistan. E in una struttura pubblica. In fila come tutti gli altri.

Nella città più violenta

La clinica dove Edhi riceveva i giornalisti era una stanzetta spoglia di qualche metro quadro nel cuore di Karachi, una delle megalopoli più violente del pianeta. Ma a far gli onori di casa c’era spesso uno dei suoi figli. Riflettevano nel comportamento gli insegnamenti paterni: poche fanfare, molta umiltà. Come il vecchio, che dormiva su un lettino o, dice qualcuno, persino sul pavimento. Edhi era nato nel Gujarat, Stato ora indiano ma che all’epoca – nel gennaio del 1928 – faceva parte del grande Raj britannico. La sua è una famiglia di commercianti, che, come tanti musulmani indiani, decide di partire nel 1947 verso la promessa di un Paese per i fedeli di Maometto, verso il sogno di Jinnah di creare il “Paese dei puri”. Ma il Paese dei puri è una promessa che stenta ad avverarsi.

Nella nuova nazione, formata da cinque province che hanno ereditato la parte occidentale del Raj (e bizzarramente accorpate a un’area del Bengala che nel 1971 secederà per diventare Bangladesh), lo Stato non ha mezzi per prendersi cura dei suoi puri. Ne fa le spese la madre di Edhi, che è paralizzata e con disturbi mentali. Comincia lì il suo desiderio di fare qualcosa per gli altri, per fare in modo di evitar loro il calvario della madre. Nel 1951 apre la sua prima “clinica”. Poi comincia a lavorare per creare orfanotrofi, camere mortuarie, luoghi di riposo per anziani e un servizio di ambulanze che corrono per tutto il Paese.

E’ animato da un forte idealismo e da un forte senso di giustizia. E’ musulmano praticante ma non ne fa una bandiera.

L’«interrogatorio» negli Usa

Eppure anche a lui tocca l’umiliazione comune a tanti musulmani. Dicono le cronache che nel 2008 gli ufficiali dell’ufficio immigrazione statunitense lo trattengono appena sbarca dall’aereo per entrare nel Paese. Lo interrogano, i poliziotti in servizio all’aeroporto Internazionale John F. Kennedy di New York, per più di otto ore.

Per sicurezza gli hanno intanto confiscato passaporto e documenti. «Durante l’interrogatorio mi hanno chiesto perché vengo così spesso negli Stati Uniti. Gli ho spiegato – ha raccontato – che tipo di lavoro faccio, ma non capivano. Volevano inoltre sapere perché non vivessi negli Stati Uniti nonostante io abbia la green card. Perché mi hanno fermato? L’unico motivo cui riesco a pensare sono la mia barba e i miei abiti»: shalwar kamiz. la lunga tunica di ogni pachistano, e magari un karakuli, uno di quei cappelli di lana arricciata che portano le persone di una certa età. Nel 2008 invece sono le autorità israeliane a prendersela con la sua attività umanitaria: gli negano l’ingresso a Gaza. Commenterà quel fatto dicendo che, giorno dopo giorno, la sfera dei diritti umani si va restringendo. Punti di vista.

Accepting a humanitarian award in 2000, Abdul Sattar Edhi said,

Nella sua vita ha ricevuto diverse onorificenze. Anche nel Belpaese. Premio Balzan 2000 per l’umanità, la pace e la fratellanza fra i popoli, Edhi viene in Italia, a Milano, dove Tehmina Durrani, scrittrice pachistana diventata famosa per i suoi libri tradotti in molte lingue sulla schiavitù delle donne nel suo Paese, racconta come ha scritto la sua biografia «A Mirror to the Blind». E aggiunge: «Schiava di mio marito è stato tradotto in 35 lingue e Empietà sta seguendo lo stesso corso, mentre A Mirror to the Blind è stato pubblicato solamente in Pakistan dalla Edhi Foundation… Mentre la letteratura che parla dei «buoni» è sotterrata sotto un velo di fremiti ed eccitazione perversa, i personaggi simili a quelli di Schiava di mio marito e Empietà attraggono un pubblico entusiasta di lettori…

Questa ignoranza a livello planetario – una pericolosa strada che l’intera umanità sta imboccando – necessita di un esame più approfondito…

Non si arriverà mai a enfatizzare abbastanza l’importanza del messaggio e dell’intera vita di Edhi, un uomo del nostro tempo, il cui esempio renderà possibile distinguere tra il vero Islam e i preconcetti legati a esso».

Buon ultimo viaggio Abdul Sattar Edhi.