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Sono moltissimi i personaggi che popolano la scena del nuovo libro di Maurizio Maggiani, Il Romanzo della Nazione (Feltrinelli, pp. 297, euro 17. Il volume sarà presentato il 13 settembre, ore 14.30, a Mantova): protagonisti noti e meno noti degli ultimi centocinquanta anni della storia d’Italia. Garibaldi, Cavour e Mazzini, ad esempio, accanto a Sante Olivieri, uno degli ultimi condannati a morte sul territorio nazionale. Carlo Pisacane e Felice Orsini da Meldola, l’attentatore di Napoleone III, accanto agli uomini e alle donne che avevano lavorato, nella seconda metà del 1800, alla costruzione dell’Arsenale Militare di La Spezia: come Cristoforo Bezzi, che faceva il ralmigatore, cioè cuciva gli orli delle vele, ed era il «più capace del regno», o come Carmela Chiribiri, macchinista. Gaetano Bresci, Togliatti e Pertini accanto a mamma Adorna, a nonno Garibaldo, allo zio Luciano, al signor Trippi. Ma il vero protagonista del libro è il padre di Maurizio Maggiani, è lui a riempire la scena più di chiunque; ed è intorno a lui che la scena si riempie, via via, di tutti gli altri e di tutto il resto.

Nel paese affacciato sul golfo della Spezia dove anche Maggiani è nato e cresciuto, suo padre faceva l’elettricista di giorno e, di sera, proiettava i film nel cinema Smeraldo. Aveva cominciato a lavorare a dieci anni, come garzone da un fabbro, e come giovanissimo fascista era stato in Africa come radiotelegrafista marconista. Aveva conosciuto l’8 settembre ed era stato partigiano, ma della sua Resistenza non aveva mai menato vanto; ed era stato uno dei fondatori del partito comunista locale. Fumava le Giubek, in un tempo in cui «fumare voleva dire qualcosa»; cantava spesso, in un tempo in cui cantavamo tutti, quando eravamo un «popolo canoro, le premesse di una nazione melodica». Di nascosto, anche dalla moglie, scriveva poesie: tredici, in tutta la vita. Ma soprattutto il padre di Maggiani coltivava sogni e utopie. Sognava, mentre lavorava; e quando gli era stato chiesto, dagli incaricati dell’Asl presso cui, ormai prossimo alla morte, era ricoverato, di scrivere su un foglio la prima cosa che gli venisse in mente, lui aveva scritto: «vivere di sogni è un’utopia». Per questo oggi Maggiani omaggia suo padre come un «costruttore di nazioni», per questo il protagonista del libro è lui: perché se la prima cosa che ti viene in mente, quando non sai più neppure chi sei, sono i sogni «allora sei un eroe»: perché occorre appunto sognare e coltivare utopie per costruire una nazione. E per questo, infine, Maggiani oggi può affermare a buon diritto che suo padre ha rappresentato «l’orgoglio di una Nazione che non ho mai visto».

È un romanzo in primo luogo famigliare, Il Romanzo della Nazione, ma è pieno di tutto: di eventi grandi, come la morte di Togliatti o la costruzione dell’Arsenale Militare, e di eventi piccoli o anche piccolissimi. Attraverso una serie di rimandi e di libere associazioni di idee, pur sempre a partire dal racconto famigliare, troviamo mazziniani, repubblicani, anarchici, comunisti, fascisti. È un fiume che porta con sé ogni cosa che incontra lungo il percorso, perché vi scorre la nostra Storia; e da questo punto di vista anche Maggiani sembra aderire all’opinione ormai comunemente condivisa, secondo cui l’Italia che poteva nascere dalla Resistenza non è nata, non è stata (pensiamo a saggi come Una politica senza religione o La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna). Se fosse vero che «lo spazio di ogni vita di uomo dura la storia – non/è vero che dura millenni», come nella poesia di Giovanni Giudici, forse anche i sogni del padre di Maggiani sarebbero dunque morti una volta per tutte con lui. Nessun utopia sopravvivrebbe mai a chi l’ha coltivata. Ma è vero anche che agli uomini succedono sempre i loro discendenti, altri uomini, altre vite, altre storie; e lo stesso Maggiani arriva infine ad affermare che in ogni caso «la vecchia storia va portata a compimento», che «non si possono lasciare le cose a metà, non funziona».

Qui Il Romanzo della Nazione si apre a possibilità che all’inizio non lasciava presagire, a speranze nuove, e con una speranza, a ben vedere, si chiude: con la costatazione che Mao Tse-Tung, il fondatore della «nazione più potente del mondo», si era messo in cammino per la sua Lunga Marcia portando con sé, insieme ad altro, la «Divina Commedia», «Il principe» di Machiavelli e un estratto da «La rivoluzione italiana» di Carlo Pisacane. Vale a dire tre libri di autori italiani che, in vita, avevano visto traditi o disconosciuti a loro volta i propri sogni, e che nonostante questo erano stati dei «gran fondatori di nazioni». «Questo tanto per dire – conclude Maggiani – che la storia non finisce mai, e va dove deve andare».